Come parlare (male) de La Storia – Sulla contemporaneità di Elsa Morante
Ma avevamo bisogno dell’ennesimo adattamento Rai? Vogliamo guardare La Storia di Elsa Morante senza aver letto il mattone di settecento pagine Einaudi? La domanda è mal posta perché nella bulimia con cui si consumano i prodotti sedicenti di cultura, e soprattutto nell’audiovisivo, è da stolti adottare la categoria della necessità. Desta perplessità la spocchia di una fetta di commentatori (la critica con la c minuscola) che con toni roboanti ricusa l’operazione di marketing e rimanda alla lettura dell’originale. Si dimentica però di fornire, ad esempio, degli strumenti per affrontare la visione, che non si riducano alla trama (è un romanzo corale e rapsodico, stratificato su un dedalo di vicende secondarie) e che contestualizzino il paese che accolse questa straordinaria operazione editoriale.
Perché quando viene pubblicata la Storia, si è nel pieno di un decennio complicato: non solo piombo ma anche quello, un ’68 con gli strascichi lunghi, la crisi petrolifera alle spalle, la metamorfosi dei linguaggi espressivi tutta ancora da capire. C’è infatti, nonostante gli umori protestatari e la disaffezione alle ideologie, un tentato presidio egemonico solidissimo da parte del Pci: insomma, bene che gli intellettuali parlino, ma che lo facciano durante le elezioni locali e stando attenti a quello che possono desumere le masse, licenziate come “gente”, dice Cesare Garboli, dalla società dei consumi.
E poi arriva Elsa Morante, che agli esordi deve scrivere racconti sotto pseudonimi maschili e sui rotocalchi “da servette”. E che sceglie la forma del tascabile, economicamente più accessibile, proiettata quindi alla lettura ampia. Da sinistra, l’operazione sembra l’incursione dell’artista nel terreno politico che non gli pertiene, perché se si “vende disperazione” non si può ottenere brio vitalistico prono alla rivoluzione. Un appunto bizzarro se si pensa a come Berlinguer li avrebbe chiamati alle armi tutti, questi intellettuali, nell’anno del dissenso. Ma le critiche piovono da ogni lato: troppo (poco) narrativa, celebrativa e secca, asciutta ma radicale, priva di lirismo simbolico eppure immaginifica, favolistica ma non abbastanza. Finanche, il biasimo di un’ideologia personale che connette Storia e Potere, “banalizzata e volgarizzata” dentro il romanzo popolare, quindi, si deduce sbrigativamente, populista.
Perciò mentre si commenta oggi lo sceneggiato Rai, investendolo del filtro demodé che sine ira et studio sembra accompagnare la televisione nazionale, che non si corra il rischio di reiterare la stessa miopia dell’establishment culturale – pressoché immutato – di cinquant’anni fa. Capire invece come avvicinare un pubblico per cui oggi la televisione esiste nel feed di Instagram, per esempio; recuperare l’ardire di un’editoria che fa uscire settecento pagine a inizio estate; superare le schermaglie sul carattere “popolare” del romanzo e storicizzare invece la categoria del “populismo”, che in tempi non sospetti già aveva il marchio del deteriore. Perché La Storia non mitizza l’organicità di un gruppo su basi etnodemografiche, né manipola retoricamente il popolo italiano di brava gente: il pietismo è insito nella distruzione che, per antifrasi, deflagra sulle vite dei singoli proprio quando la guerra termina. Quindi guardare, far guardare, guidare alla visione de La Storia oggi, senza la pretesa ingenua che abbia l’impatto della prima ora, ma aggirando la tentazione pigra di relegarlo al pubblico mediano, ma meno ampio, della Ferrante.
Non che si voglia la Morante necessariamente popolare oggi – si è ingenui a pensare che la visione sia un surrogato sufficiente del mattone di settecento pagine di cui sopra – ma sarebbe uno spreco non riconoscerne la modernità, e non usare l’audiovisivo come aggancio crossmediale al suo riferimento testuale. Perciò ri-ri-ri-avvicinarsi a La Storia per osservare la banalità con cui la pulsione sessuale si trasforma in violenza tra depressione e siderale solitudine; per ripensare che ogni giorno è una vitale ed euforica favola e anche un tragico incubo; che c’è stato un momento in cui fascista erano considerati il linguaggio e la Storia stessa; che il femminile, quando troppo emotivo, è immediatamente derubricato a isteria; che la natura, vituperata oppressa ed espulsa dalla megalopoli moderna, può essere una stupefacente e dolcissima scoperta.
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