Il braccio violento della legge – Questione di stile e di scommesse | Speciale William Friedkin
In memoria di William Friedkin, con sei dei suoi film migliori, celebriamo una delle figure più intransigenti del cinema hollywoodiano del XX secolo, irripetibile indagatore del cuore di tenebra americano che ha saputo immaginare per noi una Hollywood diversa, rimanendone sempre un outsider.
Non di rado capita che quei film destinati a entrare nella storia del cinema come opere di rottura, o come capisaldi di nuove ondate e fenomeni cinematografici, siano in realtà nati da una semplice scommessa tra amici o colleghi, un divertisment provocatorio che si trasforma in una prova di abilità e originalità. Questo è proprio il caso di uno dei più celebri titoli americani dei primi anni Settanta: Il braccio violento della legge (French Connection, 1971), nato in seguito ad una discussione tra William Friedkin e Howard Hawks, incentrata sulla possibilità di tornare a produrre polizieschi ad alta carica spettacolare, arrivando a superare il ritmo frenetico di Bullitt di Yates. Così, da questa premessa piena di punti interrogativi, prende vita e forma uno dei film più originali e personali della New Hollywood.
Marsilia e New York, criminali spietati che uccidono a sangue freddo, poliziotti travestiti da Santa Claus che brutalizzano uno spacciatore di colore. Con un montaggio parallelo si apre l’esperimento di Friedkin, mettendo sui due piatti della bilancia le condotte tutt’altro che morigerate di uomini che dovrebbero rappresentare gli opposti e che, invece, agiscono nella stessa maniera nel momento in cui detengono il potere fornito dai soldi – sporchi – o dal distintivo. Emblematico stilisticamente e narrativamente di come le due strade parallele, quando diventeranno una sola, porteranno alla cancellazione di ogni tratto distintivo. Violenza chiama violenza, bramosia genera odio, inadeguatezza genera rabbia. Il trafficante francese Alain Charnier (Fernando Rey), arrivato dalla Francia per gestire una grossa spedizione di eroina, appoggiato da grandi e piccoli boss newyorkesi, passa dall’essere protagonista di un’ordinaria a e misteriosa pista seguita da due agenti della narcotici, Jimmy Doyle (Gene Hackman) e Buddy Russo (Roy Scheider), a diventare la loro principale ossessione.
Per gli agenti, dediti all’alcol e alla violenza gratuita, che amano fare i duri con retate in locali black, dove alzare le mani e generare, o simulare, trambusto è un gioco appagante, seppur misero, avere per le mani una pista che può portare al successo di tutta una carriera – a svoltare finalmente – è una scarica di adrenalina continua che crea dipendenza. Si tratta del biglietto d’oro per il successo, per guadagnarsi il rispetto che a Doyle e Russo non è mai stato garantito poiché la loro impertinenza e irruenza non è direttamente proporzionale alla loro astuzia e tanto meno alla loro pazienza. Questo sentimento di rivalsa malsana passa, in primo luogo, attraverso il mezzo filmico; per Friedkin non è solo la sceneggiatura a doverla raccontare e manifestare, anzi è soprattutto l’immagine. Prendendo a modello tutti i maestri che hanno rivoluzionato il cinema nel ventennio che precede la realizzazione del film, mescola ciò che lui fino a quel momento ha fatto, il documentario, alle intuizioni geniali delle nuove avanguardie. Lo stile documentaristico con cui racconta il mondo di Brooklyn e i locali frequentati, per lavoro e per piacere, dai poliziotti, scivola lentamente vero un conclamato nuovo tocco personale che mescola Nouvelle Vague e New American Cinema alla lezione del cinema classico. L’uso della camera a mano coesiste con le riprese di una realtà urbana che strizza l’occhio a Polanski e una frenesia che avvolge i personaggi e li plasma attraverso inquadrature frenetiche come nel cinema di Cassavetes. Tutto si tiene al punto da creare un’armonia e una vivacità esuberante che mantiene alta la tensione e stimola lo sguardo a non perdersi nessun fotogramma nella costruzione articolata e spettacolare dove nulla è trattenuto, dove con l’esibizione pubblica si aggiunge una sfumatura non convenzionale a una vicenda che, priva di orpelli, non avrebbe nulla di anticonvenzionale.
La rapidità è la rivoluzione nel susseguirsi di azioni, ambientazioni, appostamenti, fughe e inseguimenti che si ripetono nel vortice della paranoia che affligge, silenziosa, il rude Doyle, rendendo l’atmosfera sempre più malsana, torbida e corrotta, dando spazio ad un mondo maschile e maschilista che vive secondo leggi arcaiche e brutali, che soffoca le donne relegandole a ruoli di bamboline o di tappezzeria, cambiata o sfruttata solo all’occorrenza con la funzione di intermezzo ludico tra un colpo e l’altro. Ciò che, forse, spiazza in Il braccio violento della legge è il constatare che alla fine della folle corsa verso il riscatto non c’è futuro per nessuno: criminali e legge falliscono, trovandosi a dover ingoiare il rospo di un’amara delusione che rigetta tutti nel buio dell’insicurezza e della mediocrità, il buio in cui riecheggia solo il boato di uno sparo senza nome, appartenenza o bersaglio visibile. Una metafora, forte e diretta di come la frenesia, in tutte le sue declinazioni, si debba per forza arrestare e lasciare spazio alla quiete, al vuoto, al silenzio che segue il clamore di un attimo di fasulla speranza.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – dedicata al cinema, alle serie e al teatro. Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] una seggiolina che porta al centro il suo nome, a sinistra l’Oscar come miglior regista per Il braccio violento della legge (1971) e a destra una statuetta con un punto interrogativo (non ne arriveranno più), adesso ha […]
[…] Qualcosa che, come il film stesso, travalica un iperrealismo metropolitano ancora figlio de Il braccio violento della legge sconfinando nei territori del metafisico. È un Male che è molti ed è ovunque, infatti, quello al […]
[…] 10. The French Connection – Il braccio violento della legge (1971), fotografia di Owen Roizman, ASC (Regia: William Friedkin) […]