
Ferrari – A ghost story | Venezia 80
Più che un biopic, Ferrari è una storia di fantasmi, un’elegia sul bisogno di correre lontano dalle proprie colpe, dalle perdite e dal dolore.
Nella sequenza iniziale dell’ultimo film di Micheal Mann, Enzo Ferrari, interpretato da Adam Driver, viene inserito digitalmente nelle immagini di repertorio di una corsa automobilistica degli anni ’20. Queste mostrano l’imprenditore italiano all’inizio della sua breve carriera da pilota agonistico. Sorride, quasi serenamente, come non farà mai per il resto del film. L’artificio digitale riflette la falsità di quei ricordi, il primo luogo in cui Enzo Ferrari si rifugia dai suoi rimpianti.
Ogni personaggio in un film di Mann ha la necessità di seguire un codice al fine di espiare una colpa. Lo scontro proviene dall’essere inseriti in un contesto che mette in costante discussione quel codice stesso. Il suo cinema, inoltre, ha da sempre seguito questo messa in discussione anche sotto il profilo formale. Che siano le telecamere digitali di Alì o Collateral, oppure le lunghe lenti anamorfiche di Heat, l’uso quasi straniante degli strumenti tecnici più all’avanguardia è proprio ciò che ha definito le atmosfere di tutti i suoi film: mondi rarefatti in cui uomini perduti cercano (perlopiù invano) di emergere dall’abisso delle loro colpe. Ferrari, al contrario, è un film della carriera recente di Mann a non usufruire, né ricercare, le scoperte filmiche più all’avanguardia.

L’Italia di Ferrari, infatti, viene ripresa come un paese rarefatto, quasi statico, in cui l’irruzione delle automobili da corsa sembra strappare il paesaggio. Gli stessi italiani protagonisti (Enzo Ferrari, la moglie Laura, e l’amante Lina Lardi) si portano dietro un peso e una fatica che raramente corrisponde al consueto ritratto dell’euforia italiana all’interno delle produzioni estere o italiane degli ultimi decenni. È un’Italia il cui classicismo intrinseco diventa quasi soffocante, un constante richiamo al passato, e quindi alla morte. La sorprendete posatezza formale e tecnologica del film, dunque, riflette in pieno questa fosca presenza della Fine, ma allo stesso tempo, permette a Mann di raggiungere vette d’irraggiungibile eleganza nelle inquadrature, nel montaggio, nella composizione del quadro, e di dare nuova luce al modo in cui affronta i propri personaggi.

Ferrari, infatti, è prima di tutto un racconto di contrasti irrisolvibili: contrasti affettivi tra la moglie e l’amante, contrasti economici tra un’azienda in bancarotta e il rifiuto d’includere soci esterni, contrasti
pubblici con la concorrenza e la stampa. La tensione si accumula nella prima parte, che vede l’organizzazione e la preparazione del team Ferrari per la Mille Miglia, inframmezzata dal racconto della complessa vita privata di Enzo Ferrari. Mann fa qui uso frequente di primi piani e cambi di fuoco, in cui l’attenzione viene spostata costantemente, ma mai violentemente, da un personaggio all’altro. I pochi campi larghi (uno, struggente, in un cimitero), mostrano soltanto solitudine.

La seconda parte rilascia violentemente tutto ciò. L’intera gara delle Mille Miglia viene raccontata quasi come una sparatoria, non molto diversa dalla rapina in banca di Heat. I primi piani diventano primissimi. La camera trema, e oscilla quasi incapace di seguire i veicoli. Dove tutto questo condurrà resterà sconosciuto fino al finale. Tuttavia, è esattamente su questa dinamica di compressione e rilascio, non tanto differente dai motori che Enzo Ferrari ama tanto, che Mann incentra la tragedia del suo protagonista. Si vuole essere i primi, per essere il più lontano possibile da ciò che si è lasciato dietro.
Adam Driver, assorbe tutto, come un buco nero, concedendosi di esprimere le proprie emozioni esclusivamente in solitudine. Allo stesso modo, Penolepe Cruz riesce a catturare lo spirito più combattivo, e moralmente più definito, di Laura Ferrari.
Ferrari è quindi un capitolo diverso all’interno della carriera di Micheal Mann. La ricerca formale si sposta verso un approccio più strettamente classico, per raggiungere un tono funereo e intimista. È un’opera sulla colpa, sulla possibilità e sull’incapacità di redimersi, ed è infine l’ennesima elaborazione di una delle poetiche più emotivamente struggenti del cinema americano.
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