
Pirati dei Caraibi – La sottile linea rossa del cinema d’avventura
Sporco. Scapestrato. Anarchico. Caratteristiche tipiche di un film sui pirati, sperimentate già più volte in passato al cinema (Almeno, ci tentò Roman Polanski con Pirati nel 1986), ma canonizzate solo dopo che Pirati dei Caraibi – La maledizione della prima luna approdò impetuoso nelle sale dell’estate 2003. Esattamente 20 anni fa.

Dalla geniale intuizione di due sceneggiatori, Ted Elliott e Terry Rossio (ideatori spavaldi già affermati di Aladdin, Il pianeta del tesoro e Shrek), Pirati dei Caraibi nasce in realtà molto prima, ovvero quando, all’inizio degli anni ’60, Walt Disney in persona si concentrò sullo sviluppo del progetto Disneyland, il parco di divertimenti situato ad Anaheim, nella periferia di Los Angeles.
A metà tra il cinema d’intrattenimento e l’esperienza outdoor, l’obiettivo ambizioso di Walt Disney è sempre stato quello di scrutare oltre la quarta parete, giungere a una nuova dimensione oltrecinema. Tra i piani: creare un’attrazione interamente dedicata al mondo dei pirati. E, così, nel marzo 1967 (in realtà tre mesi dopo la morte di Walt, che non poté quindi vedere il progetto compiuto) aprì al pubblico Pirati dei Caraibi. Una serie di barche accompagna i visitatori lungo un percorso sotterraneo dove vengono ricreati ambienti di tutti i tipi: pirati spiaggiati su isole deserte, arrembaggi di mercantili, caos e festini a Tortuga, pirati in gabbia con cani che tengono le chiavi.
Proprio da quell’attrazione, che nel frattempo diventò una delle più importanti del parco, Elliott e Rossio lavorarono a un adattamento cinematografico, diretto da Gore Verbinski, che nel 2001 divenne realtà grazie all’investimento, oltre che della Disney, del famoso produttore Jerry Bruckheimer (solo per citare qualche altro suo film: Flashdance, Top Gun, Armageddon – Giudizio finale).
Dal percorso al buio, al buio della sala: Pirati dei Caraibi era pensato come un film d’avventura e d’azione, senza però trascurare il contesto piratesco e fantasy (nello stesso anno in cui uscì Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re, sigh!) delle leggende marine, basando il tutto su personaggi al di fuori di ogni realtà, già di per sé iconici sulla carta e divenuti immediatamente cult grazie ai loro interpreti. Il gagliardo e principe azzurro Will Turner; la figlia del governatore, Elizabeth Swann, che spoglia i panni (letteralmente se si pensa alla scena dell’isola deserta) da principessa di corte, succube del padre e del promesso sposo, il commodoro James Norrington, per vestire quelli di donna che ha ricercato, e trovato, la sua libertà; la figura paterna, lasciva, perversa, menefreghista incarnata nell’ammutinato ed ex primo ufficiale della Perla Nera, Hector Barbossa.
Ma ad essere rimaste impresse ci sono anche le tante macchiette, comiche o meno, che dialogano per l’intero film in un gioco di opposti: dalla coppia slapstick di soldati semplici della marina britannica, Murtogg e Mullroy, alla loro antitesi piratesca, Ragetti e Pintel; dalla ciurma improvvisata e blasonata di Jack Sparrow (“mi avete dimostrato che sono solo dei pazzi” dice Will Turner a Sparrow) alla platea di dannati della Perla Nera di Barbossa, morti viventi che fanno eco alla condizione dell’uomo contemporaneo (“non sento niente” ammette Barbossa).

E ovviamente, lui: il sovrabbondante e furbo Capitan Jack Sparrow, Il Pirata per eccellenza, trickster multiforme, illeggibile, è un profanatore di tesori e di tombe, un abile seduttore ma anche un amante impacciato. In Sparrow c’è tutta l’anima attoriale di un magnetico Johnny Depp. Praticamente scontato il culto che si costruì intorno al suo personaggio, subito dopo l’uscita del film. A metà tra l’adolescente incompreso di Edward Mani di Forbice, e il sardonico Raoul Duke, personaggio di Paura e delirio a Las Vegas, Depp lascia il segno, e fin da subito inaugura uno stile di vita. Un Loki che ce l’ha fatta.
D’altronde, Pirati dei Caraibi guarda avanti, punta “dritto alla meta” verso l’orizzonte cinematografico. Nel frattempo, però, non ignora il passato. Anzi, al contrario, il film traccia un segno nel genere per la sua universalità ed efferatezza. Diventa il testimone del Ventunesimo secolo di un universo narrativo, erede del romanzo per ragazzi di fine Ottocento, da L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson al mitico Sandokan di Emilio Salgari, e del cinema d’avventura di fine Novecento, con il già citato Pirati in testa e la trasposizione sandokaniana di Sollima.
Jack Sparrow, abbandonato a sé stesso su un’isola deserta ricolma di rum, guarda indietro al suo vecchio collega nel film di Polanski, Capitan Red, che nonostante tutto si ritrova felice nell’unico luogo d’appartenenza, in mezzo all’oceano su un trono azteco. Alla deriva, più che alla meta. Pirati dei Caraibi eleva quest’ideologia, la canonizza, la distribuisce in tutto il mondo raccontandoci la nostra verità. Come un rimbombo di una tempesta lontana, se ne sente il ritmo e le parole: yo-oh yo-oh, beviamoci su. La si ignora, forse, ma rimarrà sempre lì: un suono lento e accogliente, trasportato dal vento e dalla corrente, che ci ricorda chi siamo e chi potremmo, o vorremmo, essere.
Certo, i pirati sono sempre personaggi emotivamente instabili, certo, incarnazioni imperfette di paure represse, ma anche rappresentazioni ribelli, ironiche, satiriche, coscienti, di una società che ha saputo risvegliarsi dal letargo sociologico. Il nostro letargo, quello contemporaneo, consumistico per paradossale natura. Eccoci qui, allora. Pirati, per volontà. In fondo, immagini messe a fuoco di quel sentimento anarchico sotteso che spesso e volentieri – non vorremmo farlo -, e magari qualcuno pensa che sia veramente sbagliato, ma che per convenienza, lasciamo assopito.

E Jack Sparrow ne è la figurazione più diretta, più esemplare, che da mitologico semidio (ricordate la famosa leggenda delle tartarughe marine usate come zattera?) viene pian piano svelato, sfogliato come il Capitan Achab di Moby Dick, arrivando ad affermarne la sua intima umanità. Completa assoluzione dello spirito, de-santificazione dell’essere umano e della sua stessa libertà. E per questo Gorbinski opta per un finale che è quasi inverosimile. La scarcerazione di Sparrow, di Elizabeth e la sentenza definitiva: Will Turner “è un pirata”. Pirati dei Caraibi è un inno alla libertà, forse uno dei più importanti, un apripista che ormai ha influenzato il gusto di generazioni intere e che non intende rinunciare alla sua condizione di immortale. Il volo di un uccello è, e sarà sempre, libero. Aleggia su note flebili, al ritmo di Yo-oh, yo-oh, a pirate’s life for me.
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