
Un dramma borghese in XR? – Festen de Il Mulino di Amleto
Quanto sono belle le famiglie degli altri. Un pensiero che deve esser sorto più o meno in ognuno, prima o poi. La famiglia Klingenfeldt, all’inizio di Festen. Il gioco della verità, sembra una di quelle perfette. Primo adattamento teatrale italiano (con tanto di traduzione inedita di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi) del a sua volta primo film Dogma 95, a firma Thomas Vinterberg, l’entusiasmante lavoro de Il Mulino di Amleto diretto da Lorenzi e prodotto da TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor – Centro di produzione teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Solares Fondazione delle Arti sbarca al Teatro Elfo Puccini di Milano, è in replica dal 27 giugno all’1 luglio ed è assolutamente da non perdere.

Una riunione di famiglia per festeggiare il sessantesimo compleanno del padre Helge è l’occasione di ritrovo per Christian, Helene e Michael, due fratelli e una sorella invitati dal genitore-magnate ad una festa in grande stile nella residenza di famiglia, dove però poco tempo prima ha avuto luogo il suicidio della sorella gemella di Christian, Linda. Nel corso della serata, in cui emergono affetto ma anche frizioni, distanze e incomprensioni tra i figli, è richiesto a Christian in quanto figlio maggiore di tenere un discorso prima del primo brindisi per il padre, anche per ricordare la sorella. L’uomo, che abbiamo già visto turbato in vista di questo appuntamento, decide di dichiarare pubblicamente e a più riprese il motivo del suicidio della sorella: lui e Linda da bambini vennero sistematicamente violentati dal padre, con la silenziosa connivenza della madre. Attraverso un intreccio di situazioni che vedono svelamenti, scontri fisici e verbali, colpi di scena, prese di coscienza del trio protagonista, la rappresentazione del dramma borghese vede il suo apice nel finale, per poi restituire una (ri?)costruzione di un equilibrio non per forza duraturo, ma senz’altro inedito, dove il padre, destituito dal suo ruolo dittatoriale, è abbandonato nello spazio scenico da tutto il cast, ormai in platea insieme al pubblico.

È proprio in un continuo gioco spaziale – quasi un marchio di fabbrica per la compagnia torinese, basti pensare all’affascinante Platonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove e alle riuscitissime interazioni tra attori, attrici e scene – che l’opera espone pienamente un significato ulteriore ed attualissimo: il boccascena è per gran parte dello spettacolo velato e la scena resta per lo più buia, con pochi elementi luminosi. Questo espediente permette alla compagnia, composta da Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Carolina Leporatti (in un’ottima sostituzione di Roberta Calia), Barbara Mazzi (che spicca, particolarmente in parte nella prima ripresa milanese), Raffaele Musella e Angelo Tronca (sempre credibile nel suo trasformismo binario che sembra esplicitare, soprattutto quando esposto in proscenio, la lettura dello spettacolo che qui si propone) di utilizzare il boccascena come schermo sul quale proiettare in diretta tramite una videocamera a colori, quasi costantemente in scena e manovrata a turno da un membro del cast non di scena. Una simile trovata, solo apparentemente non troppo originale, viene invece valorizzata dal ritmo virtuosistico e mai vorticoso che se ne fa, in pieno accordo con il ricchissimo tappeto sonoro firmato da Giorgio Tedesco (che come Link-Boy firma le luci insieme a Eleonora Diana, a sua volta dietro anche al visual concept): attraverso movimenti di scena che sfruttano tutte le direzioni dello spazio a disposizione e giocando un dentro-fuori metaforico con il proscenio (raggiunto tramite passaggio in quinta da diversi personaggi lungo lo svolgersi della vicenda), fino ad un primo collasso del velo-schermo e poi un secondo, definitivo, elevarsi di esso – a mo’ di sipario, non a caso -, quello che lo spettatore pare sperimentare è una continua scissione fisica e psichica, perfettamente rappresentativa della crisi di identità che investe il protagonista.

Come a dire: se lo spazio interiore va in crisi lo spazio esteriore teatrale, mai solo ambiente, non può che fare altrettanto. Non è un caso quindi se un simile caleidoscopio fruitivo sfrutta la proiezione di corpi lasciando in filigrana la rappresentazione dal vivo: oltre all’esplicito tributo all’origine cinematografica “dogmata” del lavoro, infatti, quello che viene a crearsi è un gigantesco meccanismo analogico di Realtà Espansa (o XR), dove per paradosso la Realtà “Reale” da cui l’occhio è primariamente attratto risulta essere quella proiettata sull'”archi-schermo” – per usare un termine qui pienamente esemplificativo, coniato da Mauro Carbone -, mentre la Realtà Aumentata è quella corporea, che avviene in scena dietro di esso, che è possibile vedere dietro l’immagine (o meglio, sul suo stesso piano visivo ma su di un altro piano fisico) e che restituisce, essendo a teatro, un senso completo di quello che avviene non solo in scena, ma anche nel teatro mentale e percettivo dello spettatore.

A riprova di ciò, quando il velo viene rimosso quella in cui compagnia e pubblico vengono immersi, con un eclatante e definitivo sfondamento della quarta parete finale, è una vera e propria Realtà Virtuale, dove la sala va a costituirsi come un nuovo spazio in cui immagini e corpi, ugualmente e congiuntamente vissuti da pubblico, attrici e attori, hanno svolto l’ennesimo rito percettivo e politico, quindi culturale e sociale.
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