
Open: un libro aperto sulla vita di Agassi
Invisibile Kollettivo ritorna a teatro con una lettura scenica molto particolare: dopo L’avversario di Carrère la scelta ricade infatti su Open, altro best seller contemporaneo autobiografia di Andre Agassi, stella inarrivabile dell’universo del tennis fino all’avvento del magico triumvirato Federer-Nadal-Đoković, prima del quale l’imperatore solitario della racchetta era lui solo.
Il libro, di per sé molto discusso fin dalla sua uscita nel 2009, fa luce su molti aspetti sconosciuti della vita di Agassi e del suo rapporto, si potrebbe dire, “obbligato” col tennis, rivelando anche elementi decisamente scabrosi o disdicevoli per l’immagine del suo autore, che mettendosi completamente a nudo sembra non temere eventuali ripercussioni personali. Quel che ne viene fuori, sorprendentemente, non è certo una dichiarazione d’amore di Agassi per il suo sport ma, al contrario, una serie di affermazioni che vanno ad esplicitare un effettivo odio nei confronti della propria professione e una difficoltà concreta nel trovare un equilibrio personale tra il campo, casa e lo star system americano.
Invisibile Kollettivo, nelle parole, nei gesti e nei corpi di Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Elena Russo Arman, Debora Zuin, tenta a suo modo di restituire la complessità del testo, attraverso una lettura scenica che da esso esplicitamente parte – emblematico l’inizio attorno ad un tavolo degli interpreti, libro alla mano – e spesse volte ritorna, rendendo l’oggetto libro forse più protagonista del tennista stesso. La scenografia composta da un telo, dove alcuni spezzoni di partite vengono proiettati e che a sua volta sarà elemento scenico forte per l’incarnazione di personaggi che nella vita di Agassi si sono succeduti, così come i cartonati raffiguranti foto dello sportivo in diverse fasi della carriera, nella loro estrema (forse anche eccessiva) semplicità, non fanno altro che stimolare l’immaginazione dello spettatore, così come le parole scritte del libro un eventuale lettore, arrivando a far scomparire del tutto la figura degli interpreti, che nei loro abiti volutamente scuri diventano semplicemente trampolino di lancio mentali prima che fisici per l’attivazione della fantasia nel pubblico.
Accade allora che proprio l’elemento di forza dello spettacolo diventi anche il suo più grande limite: non potendo rappresentare interamente, per forza di cose, le vicende narrate nel libro, il collettivo milanese finisce per realizzare una sorta di booktrailer dello stesso, che può efficacemente invogliare alla lettura del volume, ma non riesce nell’intento di restituire la profondità biografica del suo autore.
D’altra parte, va notato un implicito parallelismo, sottolineato anche dalla recitazione enfatica degli attori e a suo modo efficace, tra i due “giochi” che abitano la scena: quello del tennis di Agassi e quello del teatro povero posto in atto dal collettivo: così come il tennista dichiara di aver sempre odiato il tennis pur non potendo smettere di praticarlo, in virtù di una sfrenata «voglia di giocare un altro po’», allo stesso modo quello che avviene sul palco dell’Elfo Puccini – ma potremmo dire su di un qualunque palcoscenico – altro non è se non la ricerca continua, attraverso il gioco per antonomasia che è il teatro, di un orizzonte di senso (se pur temporaneo quanto una partita di tennis) da condividere con un pubblico, consapevoli che, per quanto odiosa e pruriginosa tale ricerca possa essere, abbiamo tutti voglia e bisogno di giocare un altro po’.
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