
Antigone: parola di Sofocle, o forse no?
L’Antigone che ha esordito al Teatro Elfo Puccini pone al centro la questione della parola e del suo utilizzo, necessario in qualunque forma di conflitto. A tal proposito abbiamo chiesto ad Alice Patrioli, una delle traduttrici, di svelarci i retroscena di questa operazione.
Perché Antigone? Ha senso ancora oggi interrogarsi sul conflitto tra legge morale e legge di stato? Cosa può ancora dirci un testo di oltre duemila anni fa, che per giunta in molti conoscono benissimo?
A domande come queste l’ultima produzione ATIR, diretta da Gigi Dall’Aglio, risponde ponendo l’accento sulla “dialettica del confronto”, quindi sulla parola, e sulla necessità di farne l’unico strumento di lotta, pena la catastrofe. La percezione, ascoltando le parole dei personaggi e i canti del coro, è quella di una lingua vitale, che si fa carne e musica nei corpi e nelle voci degli attori; in particolare, splendida e profonda quella del capo-coro interpretato da Sandra Zoccolan.
Punto di partenza, in questo come in tutti i casi di confronto con l’antico, non può che essere la traduzione. Per tentare un’analisi del lavoro fatto sul testo abbiamo posto alcune domande ad Alice Patrioli, una delle traduttrici.
Quali esigenze vi ha manifestato il regista?
Essenzialmente due: fornire un testo accessibile al pubblico, mai oscuro e il più possibile comprensibile, ed evitare riferimenti troppo specifici al mondo greco del V secolo in modo che la vicenda assumesse un carattere atemporale ed universale (a lui non interessava “attualizzare” quanto piuttosto rendere esemplare la vicenda di Antigone). Ad esempio, salvo lo stasimo dedicato a Dioniso, abbiamo tolto tutti i riferimenti agli dei.
Per le parti corali ha richiesto delle traduzioni in versi, novenari o settenari, perché dovevano essere cantabili e ritmate. Non sempre ce l’abbiamo fatta, ma ci siamo impegnati.
Quale è stata la principale difficoltà nella traduzione, anche considerando che il testo originale è scritto in versi?
La difficoltà principale direi che è stata quella di rendere alcune espressioni che in greco possiedono particolare intensità o ambiguità, sapendo che la traduzione avrebbe inevitabilmente perso queste due caratteristiche. L’esempio è l’apertura del primo stasimo «Molte cose danno sgomento ma nulla dà più sgomento dell’uomo»: in greco il termine è deinòs, che viene spesso tradotto con “terribile, meraviglioso”. In greco è una parola ambivalente, che indica qualcosa di eccezionale sia nel bene che nel male. Non abbiamo trovato un termine che in italiano potesse esprimere la stessa ambiguità e allora abbiamo scelto di rendere l’idea attraverso l’effetto che ciò che è deinòs produce: dà sgomento.
Per quanto riguarda l’aspetto metrico abbiamo cercato di conservare ritmo poetico e musicalità nelle parti corali.
In che misura questa traduzione è stata anche un tradimento?
Risponderei con l’esempio sopracitato: nella misura in cui non siamo riusciti a rendere sempre l’ambiguità, l’intensità o la complessità del testo greco.
Hai qualche consiglio per chi intende misurarsi con il lavoro di traduttore?
Tradurre per il teatro è un’esperienza di riscrittura particolarmente intensa: il consiglio è quello di seguire la messa in scena del testo, di andare alle prove e di essere disposto a modificare il testo laddove risulti “poco dicibile”; a noi è stato utilissimo il lavoro con gli attori durante le prove. Per quanto riguarda la fase precedente, direi che la cosa più utile è tenere presente che il testo deve essere detto, quindi evitare subordinate e periodi troppo lunghi. Durante una lettura che abbiamo fatto con Gigi Dall’Aglio, lui a volte ci interrompeva e ci diceva: “qui punto!” perché l’attore ha bisogno di respirare e riprendere fiato. Chiaramente abbiamo confrontato alcune traduzioni già esistenti, selezionato quelle che ci convincevano di più in modo da tenerle come punto di riferimento e confronto.
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