
About Dry Grasses – auto-narrazioni per combattere la depressione | Cannes 76
Un campo lungo completamente bianco, un vuoto ottico naturale quello che apre About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan, dove cielo e terra grondanti di neve assumono confini indistinguibili, finché la silhouette scura del protagonista non ci indica la linea dell’orizzonte. La prima sequenza dell’ultima fatica del regista tanto amato a Cannes diventa immediatamente superficie vergine su cui scrivere una nuova narrazione tridimensionale: trans-generazionale, trans-storica, anche in questo caso il racconto di Ceylan supera il tempo e lo spazio pur vivendoci dentro, e si colloca nella cinematografia contemporanea come opera classica, un evergreen o, se preferiamo, un canone. Perché è proprio di questo che si tratta: il regista ci imprigiona nell’Anatolia rurale come un grado 0 da cui partire per orientarci in più storie, più personaggi, più prospettive narrative e investigative tenute insieme da un orizzonte di senso nebuloso, turco e non turco, post-novecentesco e millenario.
Un altro film dal titolo naturalistico – dopo il suo L’albero dei frutti selvatici (2018) – e un altro film che fa seguitare la natura umana alla natura del paesaggio, trovando similitudini mai imperfette tra la forma delle cose e la postura dell’interiorità: il pero selvatico, le foglie secche, l’intransigenza, l’inezia, il desiderio. Ceylan inaugura tra le righe un novo organon sulla prospettiva, sui punti di vista di chi racconta e di chi guarda, senza che questo diventi un saggio filmico sul guardare (come il bellissimo Ritratto della giovane in fiamme, Celine Sciamma, 2019) quanto piuttosto un trattato esistenziale sulle scelte di vita, l’ambiguità dell’”altro”, e la nostra immagine di noi stessi.

La vicenda madre del film è al contrario tutta contemporanea: Samet, docente di arte plastica presso le scuole medie di un villaggio rurale dell’Anatolia, viene accusato – insieme al suo collega e coinquilino Kenan – di atteggiamenti inopportuni nei confronti di due studentesse pre-adolescenti. L’espediente narrativo della denuncia non è altro che un campanello d’allarme per l’interiorità del protagonista, un banco di prova per i sentimenti e le aspirazioni di un intellettuale in licenza, in congedo. Camminano parallele la storyline di Samet e Sevim e quella di Samet e Nuray,(una magnifica Merve Dizdar premiata con il Prix d’interprétation féminine), due legami differentemente erotici ma, in primo luogo, due referenti femminili pronti a confutare le verità del protagonista. Da un lato, la giovane Sevim è per Samet il sogno di una vita ancora irrealizzata, oggetto lirico e infantile più che erotico, su cui investire disperatamente le proprie energie. Dall’altro, Nuray è cartina tornasole per il proprio immobilismo: intelligente, politicamente attiva, Nuray è la nemesi adulta di Samet che insegna arte ma non dipinge più, vorrebbe vivere altrove ma resta nel villaggio, vorrebbe vivere autenticamente eppure è tristemente intrappolato come commediante.

Come tutti i grandi protagonisti del cinema di Ceylan, Samet è un personaggio intollerabile, e in questo caso lo è proprio perché è un “personaggio” – e non solo una persona – anche all’interno della storia: bloccato, inattivo, incapace di vivere a livello artistico e politico la propria vita, insiste nel raccontarsi agli altri come raffinato intellettuale deluso dalla contemporaneità, deputando a cause esterne la sua inezia. Si racconta alla sua studentessa più brillante e se la racconta con Nuray creando quel cortocircuito tutto teatrale tra vita e palcoscenico, tra verità e finzione che nella sublime sceneggiatura di Ceylan stesso, di sua moglie Ebru Ceylan e di Akin Aksu, sventra letteralmente il set cinematografico e si impone come collante del reale, come modus operandi della vita quotidiana. Nella bellissima scena della cena a casa di Nuray, non solo la camera di Ceylan si fa metro dialettico e segue vivacemente il dibattito in corso, facendo da campo e contro-campo ai punti di vista dei due inediti amanti, ma diventa anche unità di misura del vero e del falso, del non detto e delle menzogne. La distanza dei campi lunghi si assottiglia perché la regia di Ceylan è investigativa nel senso puro del termine: tecnica di approssimazione alla verità che qui non può essere altro che zoom lento, photogénie e tensione. Ma fa di più, squarcia la quarta parete come se non fosse un medium: Samet esce dalla stanza-set, cammina lungo i corridoi dietro le quinte, raggiunge il bagno dove si guarda allo specchio e ritorna in camera da letto con Nuray, non abbandonando mai, quindi, il suo personaggio. Se la verità su chi siamo può diventare una bella metafora cinematografica, allora Ceylan ci suggerisce che la vita è una continua e faticosa auto-rappresentazione.

Non si tratta dell’unico film approdato quest’anno alla Croisette che fa della “prospettiva” il soggetto forse più interessante e scottante dello stato dell’arte, ragionando su quanto il nostro mondo non possa che essere rappresentato come trino: vero, falso, probabile. Sia in Monster di Kore’eda che in May December di Todd Haynes, non solo il rapporto tra verità e finzione e quello col cinema e il teatro sembrano non esaurirsi, ma in qualche modo il cinema ci racconta quanto possa essere complicato accedere alla verità dei fatti o delle persone se di questi esistono infinite forme di rappresentazione. Il problema è meno teorico di quanto sembri, soprattutto quando è la vita di due giovani a non trovare spazio se non nella rappresentazione di un paradiso filmico, o dove l’ambiguo rapporto amoroso di Gracie trova soddisfazione solo in quello naive del suo personaggio pubblico e criminale.
About Dry Grasses porta piuttosto avanti quella poetica dell’individuo come essere drammatico imperfetto (tutta novecentesca) che l’aveva già premiato con la Palma d’Oro per Il regno d’inverno nel 2014, e con il Grand Prix Speciale della Giuria nel 2002 per Uzak e nel 2011 per C’era una volta l’Anatolia, un lavoro autoriale ventennale che si concentra su quel senso di inadeguatezza e inconsistenza umana di fronte a una vita con troppe variabili. Ceylan rispolvera continuamente la crisi delle certezze di fine ‘800, passa per l’idiota dostoevskijano prendendone le spoglie mortali e trasforma i suoi uomini e le sue donne contemporanee in tristi flaneur alla ricerca di una verità mai rivelata. Non è tanto importante per Ceylan parlare di contemporaneità ma dell’uomo contemporaneo che continua a riabilitare la sua tragica condizione esistenziale con nuovi stratagemmi. L’uomo contemporaneo è per Ceylan continuamente “autore”: di film, di storie, di versioni del sé e di soluzioni coraggiose o meno per accettarsi.
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