
Attrice, attivista e amleta – Intervista a Francesca Turrini
Francesca Turrini ha recitato con grandi personalità del mondo del teatro e del cinema (da Emma Dante a George Clooney, da Paolo Virzì a Matteo Garrone) eppure questa è la sua prima intervista. Conosciutissima per l’interpretazione di Wanda in Thanks for vaselina di Carrozzeria Orfeo, Francesca Turrini è attrice malleabile e schietta: in questa intervista non usa mezzi termini quando parla di fatshaming, bodypositivity e discriminazioni che hanno luogo fuori e dentro il teatro e il set. Le sue parola hanno ispirato la nostra Federica Berti, autrice del collage Che problema avete in testa?
Il concetto della bellezza estetica è un circolo vizioso. La rappresentazione delle immagini e le immagini di rappresentazione coprono con una maschera ciò che si può percepire visivamente. Gli occhi sono occupati da strati di stereotipata estetica che vengono indossati per potersi immergere nella società.
Che problema avete in testa? nasce dal frastuono delle parole di Francesca Turrini, che si è fatta megafono di diverse problematiche, tutte con un denominatore comune: la discriminazione.Federica Berti

Birdmen Magazine è una rivista di Cinema, Teatro e Serialità e tu come attrice, pur avendo una formazione teatrale, lavori molto anche in ambito cinematografico e televisivo. Vorrei partire da questa fluidità che accomuna noi come rivista e te come interprete. Come nasce questa tua vocazione ibrida tra audiovisivo e spettacolo dal vivo?
Mi sono diplomata nel 2009 allo Stabile di Torino che all’epoca era una scuola che dava una preparazione classica molto forte, però si trovava un po’ alla periferia del mondo: non era Milano (il teatro dei grandi palchi e delle grandi compagnie) e, al tempo stesso, era molto distante da Roma. Non pensavo di fare audiovisivo, lo sentivo come qualcosa che non mi rappresentava, un po’ perché teatralmente vivevo un contesto che sembrava molto separato e un po’ perché, per quanto il teatro mi avesse fatto capire che le possibilità della mia faccia, del mio corpo e della mia personalità erano molteplici, l’audiovisivo non mi rimandava a questo. Non mi ero mai specchiata in qualcosa in cui mi riconoscessi.
Poi, una delle poche volte in cui io sono riuscita ad andare in tournée a Roma con Thanks for vaselina, il casting di Paolo Virzì (Dario Ceruti) è venuto a vedere me e Beatrice Schiros e ci ha convocate per un provino. Tempo dopo ci hanno chiamato per dirci che ci avevano prese per La pazza gioia: lì è cominciato tutto. All’inizio ho trovato un’agenzia che mi ha “parcheggiata” non sapendo cosa farsene di me, del mio corpo, del mio modo di essere attrice… stessa dinamica con una seconda agenzia, finché non sono approdato a Karasciò, con cui lavoro ormai da 3 anni, e con loro ho iniziato un percorso diverso. Abbiamo fatto un lavoro di ricerca: i ruoli per me non vengono scritti in Italia e quindi vanno trovati casting director coraggiosi che mi scelgano per ruoli per cui hanno pensato a un’altra fisicità. Invece vengo sicuramente chiamata quando c’è bisogno di un’attrice con corpo grasso, qualunque sia il personaggio. Ho fatto provini in valdostano, abruzzese, siciliano…a volte sembra che sia l’unica attrice esistente con corpo grasso! In Italia non è così, per fortuna, anzi ultimamente più attrici sono arrivate a successi incredibili, pensiamo a Claudia Marsicano: per me è stata una gioia incredibile vederla vincere un Ubu, finalmente!

Quindi ho iniziato lentamente a fare tv e faccio ancora molto fatica a fare i nomi dei registi con cui ho lavorato, perché i ruoli per cui vengo candidata sono sempre molto piccoli. In Italia determinati tipi di corpi non sono associati al ruolo di protagonista: se ti va bene fai la spalla comica. Io non mi rivedo nella comicità prodotta in Italia, quindi fatico a continuare a fare cinema e televisione, però non demordo (e comunque in questo anno di lockdown è ciò che mi ha tenuto a galla, perché il lato economico non è secondario).
Io sono sicuramente nata per essere un’attrice, però ho una difficoltà estrema nel riconoscermi nei ruoli che mi vengono proposti e questo mi ha convinto due anni fa iniziare a studiare sceneggiatura. L’ho fatto dicendomi: se non si scrivono determinati ruoli allora devo farlo io. Ho iniziato a scrivere una sceneggiatura per lungometraggio e l’unica cosa che ho capito, dopo un anno e 1800 euro spesi, è che non voglio scrivere lungometraggi. La mia passione è la serialità, da sempre, perché soddisfa il mio bisogno bulimico di storie.

Attrice malleabile – capace, attraverso il proprio corpo, di testimoniare un’idea di donna più reale e inclusiva di quella che abitualmente è veicolata dall’immaginario comune – e di conseguenza (anche se a me verrebbe più spontaneo dire “inevitabilmente”) attivista femminista. Ti sei avvicinata al teatro giovanissima, in un’età in cui tuttə fatichiamo a trovare spazi liberi dal giudizio in cui prendere confidenza con il nostro corpo. Il teatro ti ha aiutata in questo percorso?
Non so se il teatro mi abbia aiutata a essere più selfconfident. Il rapporto col mio corpo continua a essere conflittuale, perché non è facile vivere in un corpo che è la manifestazione dei peggiori incubi di tutta la società che ti circonda. Per quanto tu possa essere selfconfident, con la realtà ti scontri. Sicuramente il teatro mi ha reso possibile una forma di sovversione: già solo salire su un palco per il mio corpo è un atto politico. Ho iniziato facendo Ariel a 18 anni, ma non era essere Ariel la cosa sovversiva, era il fatto che IO interpretassi Ariel: questa già era una sovversione. Non so se è stato il teatro ad aiutarmi ad avere confidenza col mio corpo nudo, deformato oppure “adornato”, però sicuramente mi ha aiutato a trovare uno spazio: per me il teatro è una forma di ribellione. Ho una grandissima voglia di rompere i coglioni, quindi ben venga se il mio corpo diventa motivo di discussione e scandalo. Il teatro mi permette di fare questo e spero anche la televisione prima o poi: spero di trovarmi in un sistema produttivo che dia spazio a voci differenti e quindi a corpi differenti. Purtroppo il corpo grasso è rappresentato solo attraverso stereotipi. Il personaggio con corpo grasso anzitutto ha sempre pochissimo spazio nella storia e il suo arco narrativo è determinato esclusivamente dalla sua fisicità. Se ti va bene è simpatico, di solito mangia in continuazione (possibilmente schifezze), è pigro e imbranato. Quando ti va bene… Perché quando va male ti presentano un personaggio con una tristezza incredibile: l’unica cosa che desidera è avere un corpo magro. Sono i personaggi che cercano di far passare il messaggio per cui “stiamo raccontando una storia diversa” e in realtà stanno raccontando esattamente la stessa storia.

Hai sempre orgogliosamente rivendicato la tua identità di attrice dotata di un corpo le cui forme non si possono omettere. Qual è, in base alla tua esperienza, la situazione attuale del mondo dello spettacolo rispetto alle dinamiche di discriminazione di genere, bodyshaming e fatshaming?
Il corpo grasso si porta dietro uno stigma che affonda le sue radici anzitutto in una mentalità conservatrice puritana che considera i nuovi ricchi incapaci di gestire i beni materiali e la ricchezza acquisita, quindi la magrezza diventa sintomo di aristocrazia. Successivamente lo stigma del corpo grasso affonda le sue radici nel razzismo: erano soprattutto le comunità afroamericane rappresentate con la grandezza come simbolo distintivo, quindi essere grasso era associato a una razza considerata inferiore. Questo stigma è stato anche “cavalcato” dal primo femminismo (quello bianco delle suffragette) perché gli antifemministi rappresentavano le donne che prendevano in mano i propri diritti con corpi molto imponenti per sottolineare la mascolinità di quell’azione “inappropriata” per coloro che avrebbero dovuto occupare meno spazio possibile. Per questo nasce la magrezza come “valore femminile”: l’angelo del focolare occupa poco spazio. Ovviamente le suffragette, figlie del loro tempo, per difendersi hanno cominciato a fare una contropropaganda con cui rivendicavano di essere magre. Quindi molto dello stigma affonda le radici nel femminismo (bianco). Tutto ciò che riguarda invece la bodypositivity arriva in maniera prepotente dalle comunità afroamericane.

È molto importante cominciare, anche all’interno degli ambienti femministi, a fare un discorso sulla rappresentazione del corpo grasso, perché spesso si confonde il bodyshaming con lo stigma. Tutte e tutti abbiamo subìto bodyshaming, ma questo non ha implicato necessariamente delle scelte condizionanti. Le persone con corpo grasso si trovano quotidianamente di fronte a delle scelte. Anzitutto come vestirsi: una delle necessità basilari dell’uomo è coprirsi, ma le persone infinifat non trovano vestiti neanche online, se li devono far fare, non vengono considerate persone: non c’è niente per loro, neanche un indumento. Io sono privilegiata perché sono una persona mediumfat e ancora riesco a trovare vestiti online e poi ho la fortuna incredibile di avere una madre sarta, ma non è così per tutti.
Quindi avere un corpo grasso non è solamente essere prese per il culo, perché questo caso fai scelte quotidiane determinate dallo stigma che ti perseguita e che condiziona anche le decisioni lavorative. Io sono un’ attrice e sono convinta che se il mio fosse stato un corpo normativo avrei fatto una carriera molto diversa. Le scelte che mi si parano davanti sono meno numerose rispetto alle mie colleghe normopeso. C’è tutta una serie di cose per cui non vengo inclusa, non perché non sono abbastanza brava, ma perché il mio corpo è valido fino a un certo punto, solo per raccontare un certo tipo di storia. E quindi niente: la sto scrivendo io questa serie, vediamo che cosa ne uscirà fuori (sorride).
Che ruolo possiamo avere in questo processo noi amantə del teatro? Che strumenti abbiamo per essere parte attiva di un cambiamento strutturale che ci porti a guardare il nostro corpo in maniera diversa e non giudicante?
Se non cambia la mentalità non so se, come fruitori e spettatori, abbiamo veramente degli strumenti. Bisogna cominciare a porsi delle domande rispetto ai propri privilegi, così si diventa osservatori più consapevoli. Il teatro è una fonte d’immaginazione e la società lo utilizza per immaginarsi diversa, ma trae spunto dalla realtà e quindi anzitutto dobbiamo essere più consapevoli delle azioni discriminatorie che facciamo nella vita di tutti i giorni. Questo porterà sicuramente la società a cambiare, già le persone cominciano a porsi domande che prima non si facevano. Per quanto riguarda le disparità di genere io quel che dico è: boicottateli, guardate i cartelloni e boicottate i teatri che programmano solo uomini.
Per quanto riguarda la rappresentazione il cambiamento deve essere interno alla società, gli individui devono cominciare a dirsi: “Ok questa roba non mi torna, ma perché?” Perché nessuno vuole trovarsi di fronte allo specchio che ti dice : “Sei una cazzo di razzista, privilegiata, bianca e finora non hai fatto niente per passare il microfono”. Chi vuole sentirselo dire? Nessuno, ma se non si fa questo passo come si può insegnare agli altri? Non si può chiedere al teatro di essere migliore quando per primi non indaghiamo certi temi.

Da Emma Dante a Carrozzerie Orfeo, da Sorrentino a Garrone, da Catch22 a Io sono Mia: noi come Birdmen Magazine siamo statə conquistatə dal personaggio di Wanda, ma gli esempi potrebbero essere tantissimi. Tra i progetti artistici a cui hai preso parte ce n’è uno che ha contribuito particolarmente alla tua formazione?
Wanda è stato un personaggio molto importante nella mia carriera perché ha funzionato bene e mi ha dato la possibilità di lavorare con Carrozzeria Orfeo e anche per loro c’è stato un prima e un dopo Thanks for vaselina: è stato uno spettacolo che li ha lanciati nell’iperuranio. C’è poi un personaggio che mi è piaciuto tantissimo interpretare nello spettacolo con la regia di Giuliano Scarpinato Se non sporca il mio pavimento ispirato al delitto di Gloria Rosboch. Quell’esperienza mi ha fatto molto crescere, anzitutto perché Giuliano mi ha affidato un ruolo importante da protagonista (e questo non mi capita spesso) e poi abbiamo lavorato tantissimo in improvvisazione scenica. Entrambi veniamo da un teatro di ricerca, oltre a essere molto amici abbiamo studiato insieme e ci capiamo. Quello spettacolo per me è stato molto importante, è stato bello mostrarlo al pubblico, però la parte più intensa è stata la creazione di quel personaggio (Gioia Montefiori). È uno dei lavori a cui sono più affezionata, uno spettacolo secondo me bellissimo che tratta il tema del femminicidio in maniera dirompente e molto nuova. Purtroppo non andrà più in giro, a volte gli spettacoli vengono fatti, sono belli, ma non nascono sotto una buona stella.

Nell’ultimo anno hai contribuito a un progetto prezioso, urgente e unico in Italia: Amleta. Avete un manifesto molto bello che illustra benissimo le esigenze a cui date voce, ma per te cos’è Amleta?
Una mia necessità che si è modificata nel tempo, anzitutto quella di fermarsi a parlare. Ovviamente le motivazioni che muovono gli individui che compongono Amleta sono diverse, c’è chi sente più feroci alcune battaglie chi altre. La cosa bella di Amleta è che queste cause vengono raccolte da altre compagne. Amleta per me è un modo di crescere tutti i giorni e di confrontarmi. Il tema che mi interessa di più è quello della rappresentazione ed è questo che porto dentro Amleta. Sicuramente la rappresentazione del corpo grasso è un tema forte, ma non è solo quello, perché altrimenti sarei ripiega su me stessa a parlare dei miei problemi. Questa roba non è sovversiva: è lamentarsi. La rappresentazione e la rappresentanza: questi per me sono i temi forti. Non vuol dire che non mi impegni alacremente per tutto quello che riguarda la violenza, gli abusi e le molestie: è una battaglia che ho raccolto dalle mie colleghe che la sentivano in maniera più feroce di me. Per me è importante anche fare un lavoro per quanto riguarda le cariche: io voglio più direttrici artistiche e le voglio vedere anche sbagliare, non mi importa, voglio ci siano più donne che si mettono alla prova in quel ruolo.

Per quanto riguarda la rappresentazione non posso non farmi domande su ciò che vedo come spettatrice, non solo a teatro, ma anche al cinema e soprattutto attraverso le piattaforme Netflix, Prime Video, Disney+… Siamo bombardati continuamente da immagini e da storie e m’interessa analizzarle dal punto di vista della rappresentazione: non solo la normatività dei corpi, ma anche l’etero-normatività, il punto di vista delle persone razzializzate… Come Amleta ho incominciato a modificare il mio punto di vista e anche i prodotti che guardo. Mi sono costretta a vedere quante più serie possibili scritte e dirette da donne, serie in cui ci sono personaggi femminili complicati e sfaccettati. Mi sono imposta di guardare “altro” perché tutte noi siamo cresciute con un unico sguardo che ci ha condizionato, perché non avevamo a disposizione tutto ciò che abbiamo adesso che la fruizione è molto più semplice. Ho deciso di guardare tante cose differenti per creare un nuovo humus da cui far risorgere e fiorire le mie idee.

Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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