
Io Capitano – Sublimazione favolistica del viaggio migratorio
Non troppo tempo fa, Io Capitano esordiva a Venezia 80 raccogliendo consensi e premi, mentre, candidato a miglior film internazionale, già si posiziona ai blocchi di partenza della spietatissima corsa all’Oscar. Applausi a parte, il suo mirabile pregio è aver saputo intercettare il contemporaneo e inserirsi nel discorso pubblico – qual è prerogativa di ogni grande film nella storia del cinema – e soprattutto offrire ancora, a distanza di oltre un mese dalla sua uscita, un argomento di conversazione transgenerazionale, non divisivo con cui trascorrere le cene in famiglia.
Quando sarebbe sufficiente accendere la televisione per assistere alla zuffa politica sulla “questione migratoria”, Matteo Garrone sceglie di fare un controcampo, allinearsi con un altro punto di vista per proporre finalmente una narrazione diversa rispetto ai media occidentali; e, nel farlo, si riconferma anche uno degli autori più riconoscibili e compiuti del panorama italiano, di un cinema nazionale che, però, aspira a farsi internazionale, anche grazie a un budget non del tutto indifferente di 11 milioni di euro.

Se la filmografia garroniana traccia un arco evolutivo estremamente coerente, non è poi difficile intravedere in quest’ultima impresa la chiusura di un cerchio perfetto, il tassello di collegamento tra due estremi: la predisposizione al reale, talvolta grottesco, che contraddistingue i primi lungometraggi di stampo documentaristico, da Terra di mezzo (1996) a Estate romana (2000), e l’attitudine favolistica, capace di farsi inserto lirico o racconto magico-realistico, come è il caso dei recenti adattamenti da testi popolari Il racconto dei racconti (2015) e Pinocchio (2019). Due fili, realtà e fantasia, che, a ben vedere, si aggrovigliano in più punti, alimentandosi a vicenda tanto da diventare essenziali e indistinguibili costituenti di un composto autoriale originale, capace di trasformare ancora una volta l’orrore di cronaca in drammaturgia poetica, mitizzando il pellegrinaggio dei migranti africani in Viaggio dell’Eroe.

Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), eletti ad archetipi rappresentativi di tanti altri eroi e tanti altri viaggi, sono due giovanissimi senegalesi di Dakar che nel tempo libero, tra la scuola, le feste e il lavoro, sognano l’Europa, agognata Terra Promessa, fantasticando il successo nell’industria musicale. Adottando un regime narrativo forte che non manca di concedere all’emotività, Garrone ne segue l’avanzata in un mondo straordinario e insieme terrifico che dal Mali, attraverso l’estenuante traversata nel deserto, conduce alle prigioni libiche per concludersi, infine, nel Mediterraneo. Scaditi dal ritmo serratissimo delle dissolvenze incrociate, luoghi e personaggi si susseguono come tappe lungo un percorso di formazione forzato, in cui l’ingenuità adolescenziale e la purezza morale non possono che scontrarsi con la violenza più efferata e impietosa.

Le speranze affievoliscono e i colori tanto accesi che caratterizzavano la quotidianità in Senegal stingono progressivamente in sabbia e sporcizia, ma l’identificazione spettatoriale scatenata è potentissima. L’autore romano si aggrappa alla materia solida, scolpita dalla luce calda di Paolo Carnera, e non molla mai la presa: scandaglia persistentemente i volti dei suoi protagonisti in primi piani ad alto grado di leggibilità, dove le emozioni transitano ed esplodono senza alcun ritegno, senza lasciare mai una possibile traccia d’inespresso.
A concludere due ore di odissea, dunque, c’è solo il viso di Seydou rivolto ai salvatori italiani piombati dal cielo in elicottero, ma la macchina da presa non ha fretta, aspetta e tutto si palesa nel giro di un long take catalizzatore di commozione: incredulità, esultanza, poi rabbia e pietà.

L’accesso all’universo emotivo dei due eroi – vedere il mondo attraverso i loro occhi gonfi di lacrime – spalanca le porte all’ingresso della favola: una donna dispersa tra le dune del deserto si alza in cielo svolazzando come una brillante sirena verde smeraldo; un messaggero notturno sussurra le buone notizie all’orecchio di una madre preoccupata. Il reale, nelle mani del suo fedele regista, trasfigura, diventa la base d’innesto per sorprendenti dispiegamenti visivi dell’immaginario e derive oniriche dal valore salvifico. Il cinema, fin dalle sue radici surrealiste, è in grado di dare forma ai turbamenti più reconditi dell’animo, ma, questa volta, le immagini allucinatorie di Io Capitano “tolgono peso” al senso di colpa – quello dell’abbandono -, lo alleggeriscono come un innocuo palloncino portato via da un soffio di vento: il cinema, questa volta, libera e assolve.

In fin dei conti, quella di Seydou e Moussa è una storia di salvezza e loro sono due eroi con cui è facile identificarsi e commuoversi. Non sono gli stessi migranti ritratti dal documentarista Gianfranco Rosi in Fuocoammare (2016), i cui corpi giacciono ogni giorno accatastati nelle stive stracolme di barconi sovraffollati. Generalmente, per i non-eroi il viaggio si conclude senza alcuna benedizione o premio finale, ma Matteo Garrone questo non lo mostra, perché il suo non è un cinema politico né mai ha tentato di esserlo: non denuncia l’ingiustificata sofferenza subita dai giovani senegalesi per il solo desiderio di vivere una vita diversa, non denuncia i torturatori libici, né gli europei (non per questo meno colpevoli). Dovrebbe? È un quesito che rimane aperto al dibattito. Io Capitano, però, fa altro: non passa inosservato agli occhi del pubblico occidentale, anzi, accende una miccia che, riconoscimenti a parte, non si spegnerà facilmente o, auspicabilmente, esploderà facendo un gran fracasso.
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