
Rapito di Marco Bellocchio – Tana Libera Tutti | Cannes 76
Quando l’Italia non era ancora un paese e il pontefice era ancora un papa-sovrano, Edgardo Mortara fu rapito. Chi conosce l’ultima, prestante filmografia di Marco Bellocchio sa come, da diversi anni a questa parte, il regista non prescinda dai fatti compiuti, dalla storia come cronaca, per poi coglierne il dubbio morale, farne metafora del tormento esistenziale, indentitario e in questo caso, di nuovo, religioso.
Ancora una volta, quindi, la Storia come punto di partenza. Perché nel caso del piccolo Mortara, bambino ebreo bolognese, perno di un braccio di ferro tra adulti e religioni, ennesimo corpo-ricatto disputato e rapito dalle interpretazioni, dai credo e dalle ideologie (come in Buongiorno ed Esterno Notte, Bella addormentata, Marx può aspettare, aspettando il prossimo lavoro sul caso Tortora), Bellocchio semina una nuova, profonda, riflessione sul rapporto tra storia e individuo, tra corpo collettivo e singolo, tra Storia ed esistenza. Infatti, Edgardo Mortara si trova suo malgrado in un estorsione messianica, diventa un simbolo esemplare in cui rivive il battesimo di Gesù, poi battezzato e redento.

Se Steven Spielberg, che aveva iniziato a lavorare al soggetto, non si fosse poi interrotto, molto probabilmente ora staremmo parlando di un coming-of-age, un romanzo di formazione in cui il piccolo Edgardo impara cosa sia la vita, la separazione dalla famiglia, il plagio, l’amore per il proprio aguzzino, il riscatto. Ma Edgardo, in Rapito, è solo fortuito viatico per una disputa storico-ideologica intessuta con le parole. Parole che qui non sono più brevi, furenti, spontanee e offensive come la bestemmia del climax de L’ora di religione, bensì lunghe, assorte, memorizzate e adulative: preghiere che, protratte in ebraico e latino, si svuotano di senso, diventano dogmi, prese di posizione capaci di sacrificare una vita, pur di vedere la sottomissione dell’Altro.

In Rapito, la preghiera come atto linguistico, culturale e rituale che identifica un individuo tanto quanto un gruppo famigliare, forma di auto-analisi e insieme di riconoscimento e appartenenza, si carica dei tratti più iconoclasti di Bellocchio, un controcampo lessicale a quella battuta di Nel nome del padre che diceva che “L’unica giustificazione di Dio è che non esiste”. E, a proposito di padri, come in molta della filmografia Bellocchiana, il padre, in Rapito, è inerme: maldestro, goffo, incerto e impotente quello interpretato da Fausto Russo Alesi, in declino, allucinato, senza consenso e futuribilità il Pio IX di Paolo Pierobon.

Non c’è famiglia, appartenenza e identità possibile per Edgardo, come per l’individuo davanti alle lotte ideologiche e religiose dell’Italia nel suo farsi, ritratta in modo severo e crepuscolare da una fotografia che predilige lo scontrarsi statuario tra ombra e luce – entrambe esasperate all’invisibile – e sceglie di straniare gli ambienti, sostando sui volti da vicino, in modo commosso, palpitante, lasciando le lacrime degli interpreti – tutti in forma smagliante – come unico punto luce. In Rapito, per Edgardo Mortara e per lo spettatore, non c’è famiglia a cui sentirsi legato, piuttosto pertugi, sottane, cunicoli, nascondigli, che si tratti di un gioco tra bambini, di lenzuola, della gonna di una madre, degli abiti del papa o delle proprie mani in preghiera.

E proprio nel mantra continuativo della preghiera, Bellocchio instilla una riflessione sull’insensatezza degli idoli, dei simboli e dei dogmi, esentandoli dalla pura rappresentatività. In Rapito, come con la statua della vergine di Nel nome del padre, o la croce trascinata a fatica da Moro-Gifuni in Esterno Notte, Bellocchio disarciona Cristo dalla pura iconologia e lascia che cammini nella Storia, fuori da ogni posizione aprioristica, rendendo l’immagine un oggetto del mondo, non più una sua sublimazione o rappresentazione.

L’ultimo film di Marco Bellocchio racconta in modo radicale, intransigente e drastico una storia semplice sul modo che hanno le immagini di mediare, traviare e fare la Storia. E di come la Storia sia una spoglia collettivo-pubblica e intima al contempo, come due guardie appostate ai piedi di un letto. Nonostante il tempo che passa, prosegue la sua filmografia giovane e ribelle che negli ultimi anni ha reso urgente e contemporaneo il suo sguardo al passato. Perché in Rapito è evidente un cinema che coltiva il tormento, che pungola lo spettatore moralmente e che sfuma i confini tra adulazione e aggressione, tra godimento e autoflagellazione, tra realtà e onirico, tra fede e gusto per il martirio.
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