
Robert Eggers – La classe operaia va da qualche parte
Atmosfere surreali, storie cupe, oscurità latente. Sono solo alcune delle associazioni che a ragion veduta si attribuiscono al nome di Robert Eggers. Una reputazione, la sua, costruitasi in appena sei lavori di cui solo la metà lungometraggi cinematografici e che si appresta a consolidarsi ulteriormente con i recentemente annunciati Nosferatu e la miniserie su Rasputin. Eggers ha l’indubbio merito di essere un cantore eccezionale del romanticismo gotico dei giorni nostri. È facile, quando non scontato, individuare i fili rossi comuni a tutti i suoi film che abbiano a che fare col sovrannaturale e il mostruoso. Tuttavia c’è un tema, almeno nei suoi lavori cinematografici, che non attribuiremmo immediatamente al regista newyorkese, nonostante sia preponderante in almeno due film. Parliamo del tema del lavoro, della relativa alienazione e, sorprendentemente, della lotta di classe. Parafrasando Elio Petri, per Robert Eggers la classe operaia va da qualche parte. Dove, non ci è dato saperlo, ma se non altro sappiamo che strada intraprende.
Il suo primo lungometraggio, The VVitch (2015), esplora la vita di una giovane contadina del New England e della sua famiglia alle prese con episodi inspiegabili e inquietanti. The VVitch non è certo il primo film che tratta delle streghe nell’America coloniale, né il più famoso, eppure un elemento particolarmente curato della pellicola – ricorrente poi in tutti i lavori di Eggers – contribuisce a rendere il tutto un’esperienza autenticamente viscerale. Questo elemento lo possiamo chiamare “ricostruzione storica accurata” ma è innegabile che Eggers abbia a cuore la messa in scena della fatica e del lavoro manuale. Thomasin (Anya Taylor-Joy), la protagonista, è ritratta mentre porta avanti ogni tipo di faccenda dentro e fuori casa e possiamo avvertirne la fatica fisica e mentale. Non tutti lavorano allo stesso modo nella famiglia, vuoi per limiti di età come i gemellini o per motivi antropologici come il primo figlio maschio Caleb. Sta di fatto che Thomasin è a tutti gli effetti insieme al padre, e forse anche più di lui, la forza lavoro della casa. Gli inquietanti avvenimenti che si abbattono sulla famiglia hanno l’effetto di trasformare la povera Thomasin in una vittima di sospetti, accuse e finanche odio, specialmente da parte della madre. Oppressa da più parti (sociali?), Thomasin è alla fine costretta a cedere a una lotta per la sopravvivenza che è anche e per forza di cose una lotta per l’emancipazione. Senza più i suoi familiari/padroni, Thomasin si spoglia letteralmente e metaforicamente di ciò che la teneva legata alla realtà familiare, una realtà oltre che affettiva sopratutto lavorativa. Thomasin è “libera” sebbene al posto dell’alienazione lavorativa ne abbia scelta un’altra. Non sappiamo se per forza peggiore, Eggers ci tiene a farci vedere che si alza verso una non meglio specificata estasi, eppure l’unica cosa certa è che non sappiamo dove vada, né cosa ci sia dopo.

Al suo secondo lavoro, The Lighthouse (2019), Eggers torna alla macchina da presa per raccontare una storia di lavoro e sfruttamento ben miscelata con gli aromi delle storie di Edgar Allan Poe (e pure un po’ di Ray Bradbury se avete presente il racconto La Sirena). In questo film la lotta di classe è a tutti gli effetti il motore trainante degli eventi del film, grazie a un accurato e sapiente simbolismo. Il personaggio di Pattinson, Ephraim, è fin da subito contraddistinto da una duplice natura: la prima che vediamo è quella del lavoratore manovale che non fa troppe domande. Il suo padrone, Thomas Wake (Willem DaFoe), è ancora più avaro di risposte e quelle poche che Ephraim vorrebbe conoscere non gli sono concesse. Ephraim “avverte” anzi sa che oltre il suo lavoro c’è qualcos’altro. Qualcosa che non gli è dato conoscere, né vedere. Solo il suo capo sa cosa ci sia dentro la lanterna e non è un caso che egli faccia di cognome “Wake”, cioè sveglio, cosciente, mentre Ephraim anche mentre lavora sembra risentire di uno stato di intorpidimento che possiamo chiamare tranquillamente alienazione. Qui il paragone tra Ephraim e il Lulù di Elio Petri è d’obbligo, visto che entrambi partono da una condizione di docile sottomissione per arrivare a una sorta di liberazione attraverso anche la perversione sessuale, che altro non è che un simulacro della dialettica servo-padrone nel quale il servo sottomette una creatura che nella sua visione sta sotto di lui a più livelli. Mentre la storia avanza, avvengono due episodi importanti: il primo è il peccato originale di Ephraim, ovvero un assassinio, sia “solo” di un gabbiano. Il secondo è una relativa distensione tra servo e padrone che però non basterà a salvare nessuno dei due da ciò che sta per abbattersi su di loro.

Con l’assassinio del gabbiano, il lavoratore Ephraim si macchia di una colpa gravissima: l’aver sfogato attraverso la violenza verso una creatura innocente il suo senso di rabbia e frustrazione per le condizioni di lavoro. Ovviamente intuiamo che il gabbiano è anche qualcos’altro ma di ciò avremo conferma solo verso la fine. Mentre Ephraim e Thomas si conoscono sempre di più, anche nelle avversità, emerge un’altra verità, cioè la seconda vita e natura di Ephraim. Ephraim non è neanche il suo vero nome come apprendiamo, bensì il nome del suo primo padrone mentre faceva il taglialegna. Padrone morto in un incidente che non ha potuto o voluto impedire. Un possibile senso di colpa incarnato dal gabbiano ucciso. Thomas, questo il suo vero nome, è quindi rivelato e nudo. Egli si chiama come il suo padrone e questo porta con sé diverse conseguenze intuitive che catalizzano gli eventi del finale: Thomas lavoratore è il vero padrone del suo lavoro, e non Thomas Wake, il guardiano del faro che anzi sfrutta e deride il lavoro del suo sottoposto come dimostrato dal diario di bordo. Inizia quindi qui un’altra lotta, fisica, metafisica e allegorica, nel quale si consuma il conflitto di classe vero e proprio visto che, come in The VVitch, chi lavora e si ribella non sottomette i propri padroni, ma se ne sbarazza proprio. Quasi a dire «i padroni non ci servono». Thomas, finalmente libero, può andare a vedere cosa si cela nella lanterna tanto cara a Wake. La rivelazione lo manderà in estasi e poi lo ucciderà.
Solo apparentemente meno incentrata sul tema del lavoro, l’ultima fatica cinematografica di Eggers, The Northman (2022), conferma almeno due sue costanti: la passione per l’articolo determinativo inglese e il lavoro come fonte sia di emancipazione ma anche e sopratutto di imbruttimento e alienazione. Amleth è un padrone, meglio ancora il figlio di un padrone, ma la sua vita è presto sconvolta dall’omicidio del padre, assassinato dal suo stesso fratello. Amleth cresce nell’odio e nel desiderio di vendetta, eppure non appena ha notizie certe su dove si trovi suo zio Fjolnir non si prodiga per cercare subito uno scontro frontale, ma sceglie di abbassarsi al livello di uno schiavo per meglio perpetrare la sua vendetta, diciamo così, dall’interno. Amleth è quindi qui ancora più consapevole della sua condizione di sfruttamento, condizione che a sua volta sfrutta per fini personali. Una vendetta che inizia molto prima del primo omicidio o del primo sabotaggio. La vendetta inizia nel momento in cui egli si rende necessario alla famiglia di Fjolnir la quale, non consapevole della sua vera identità, lo premia per la sua dedizione facendolo diventare il capo della servitù, pur ricordandogli che rimarrà sempre uno schiavo. Amleth vive così il paradosso attualissimo di essere il migliore tra gli schiavi, premiato ma non emancipato per la sua fatica. Non che Amleth speri di emanciparsi in questo modo, anzi, il suo piano ha il precipuo scopo di decostruire il sistema di potere dello zio, ma è innegabile che la spocchia della famiglia (leggasi ancora una volta “padroni”) sia del tutto funzionale ad alimentare quel senso di rabbia e vendetta che in questa fase della vita del protagonista risente anche della sua condizione di inferiorità e sfruttamento. Anche in questo caso la lotta per la liberazione e di classe non può che avere un esito violento che si concluderà con la morte in battaglia dell’eroe. Le scene finali ci mostrano il protagonista venire portato via a cavallo verso il Valhalla da una valchiria, ma non vogliamo né possiamo escludere completamente che si tratti di una visione onirica.

Sarebbe azzardato, per non dire sbagliato, affermare che Eggers con il suo cinema voglia sinceramente fare della lotta di classe. Ma non è neanche sbagliato riconoscere che l’effetto più o meno voluto dell’accuratezza e ricercatezza storica di Eggers sia quello di mostrare il lavoro umano nei suoi aspetti più degradanti. In Eggers il lavoro non nobilita affatto, anzi è l’anticamera della distruzione e dell’annientamento. Sarà anche vero che nella visione di Eggers la lotta di classe non porta a una reale liberazione (ma anche qui dobbiamo sospendere il giudizio), ma è altresì vero che la fatica non esalta i protagonisti. È possibile quindi immaginare un mondo senza fatica e senza lavoro? Probabilmente sì ma nel caso di Eggers questo viene dai suoi lavori giovanili. I tre cortometraggi del suo periodo universitario ci mostrano un mondo quasi del tutto estraneo alle logiche della realtà industriale. È il caso della sua trasposizione di Hansel e Gretel (2007) e del Cuore Rivelatore di Edgar Allan Poe (2008). Nel suo ultimo cortometraggio del 2015, Brothers, Eggers non è più lontano nel tempo e nello spazio come nei suoi altri lavori ma sembra voglia dirci che nella società post-industrializzata, persino le dinamiche di gioco tra fratelli siano destinate a diventare una macabra lotta per la sopravvivenza e la prevaricazione.
Tra la fiaba e il moderno, tra l’ancestrale e il contemporaneo, Eggers ambienta il lavoro che è perdita dell’innocenza, orrore e prevaricazione, sangue e violenza. I suoi eroi, allegorie della classe operaia emergente ma anche della desolante solitudine dell’individuo alienato, non possono che ribellarsi con violenza e andarsene dal mondo mostruoso che subiscono. Dove non ci è dato saperlo, ma la strada che intraprendono sì. Ed è una strada che passa per l’alienazione, la violenza, la sessualità repressa e poi brutale e infine una dubbia liberazione.
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