
The Mandalorian – Capitolo XIX – Conversioni e tradimenti
Attenzione: la recensione contiene spoiler dell’episodio 19 | Nell’episodio precedente Din Djarin, Grogu e Bo-Katan erano alle prese con la quest simil-arturiana che li vedeva alla ricerca delle miniere di Mandalore, e con il conseguente inabissamento nelle Acque Viventi. Il movimento catabasico, lo sprofondamento verticale che dalla superficie del pianeta giungeva alle acque purificatrici, aveva inoltre portato Bo-Katan (e un Din Djarin dantescamente privo di coscienza) all’incontro subacqueo con il “mitosauro” – vale a dire con la bestia mitopoietica della tradizione mandaloriana: il possibile dispositivo di fondazione di un nuovo ordine futuro. Il mitosauro è la condizione di esistenza di un rinnovamento della Via, della resurrezione della “Way of the Mandalore”, e di conseguenza si pone come simbolo di raccoglimento delle fila narrative – e come anticipazione di una futura rottura degli equilibri.

A differenza del Capitolo XVIII, il terzo episodio della terza stagione dilata i ritmi e apre nuove parentesi d’interlaccio narrativo. Le vicende del duo Grogu-Din (duo ampliato in forma triadica dal ritorno di Bo-Katan nell’economia del racconto) occupano i primi e gli ultimi minuti dell’episodio, e continuano ad aggiungere tasselli alla struttura archetipica dell’intreccio di stampo vogleriano (Il viaggio dell’eroe) e campbelliano (L’eroe dai mille volti). In questa chiave è possibile leggere la distruzione della reggia su Kalevala, dove Bo-Katan si era precedentemente rinchiusa in solitudine: lo scontro con i caccia TIE imperiali, la scoperta del ritorno del mitosauro (tenuta nascosta a Din Djarin) e l’impossibilità di tornare a casa costituiscono una fortissima “chiamata all’avventura”, per utilizzare un gergo vogleriano – chiamata all’avventura che si traduce, in termini narrativi, nella successiva (e involontaria) conversione al Credo dei Mandaloriani, capace di porre le basi per delle possibilità narrative molto interessanti.

l centro nevralgico dell’episodio, invece, è dedicato a due personaggi che fino a questo momento avevano ricoperto un ruolo secondario. Ci troviamo sul pianeta Coruscant, e ci viene raccontato come il dottor Pershing, già reo di aver lavorato illegalmente per l’Impero per conto di Moff Gideon, sia riuscito a reintegrarsi all’interno del tessuto lavorativo e sociale della Nuova Repubblica: con un certo didascalismo, e con espedienti narrativi non particolarmente raffinati, ci vengono spiegate le motivazioni della sua ricerca sulla clonazione, ormai interrotta, e i rimorsi dovuti ai compromessi attuati ai fini della ricerca stessa. L’incontro del dottor Pershing con Elia Kane, già ufficiale dello schieramento di Gideon e a sua volta reintegrata tramite il Progetto Amnistia, porta a delle comuni reminiscenze sul loro passato imperiale – e spinge Pershing, frustrato dal lavoro compilativo cui è stato assegnato, a voler proseguire illegalmente la sua ricerca, per quanto a scopi idealmente benefici.
E qui sorgono alcuni problemi, che interessano non tanto la macrostruttura della narrazione di The Mandalorian quanto il singolo episodio. Pershing viene infatti tradito da Kane, che dopo averlo accompagnato su uno Star Destroyer – conservato nei magazzini della Nuova Repubblica – per trovare i materiali per continuare la ricerca, lascia che questi venga scoperto e arrestato dal governo. Poco dopo, una volta giunti nel luogo dove il dottor Pershing viene detenuto, Kane viene lasciata sola e libera di manomettere il macchinario che dei funzionari avevano collegato alla mente del dottore, alzando esponenzialmente il livello di potenza del mind flayer.

Gli eventi in sé scorrono in maniera fin troppo lineare, senza sbalzi né approfondimenti narrativi di pregio particolare, ma quel che confonde davvero le acque (e lo spettatore) è il modo in cui i personaggi sembrano ragionare e relazionarsi fra loro. Com’è possibile che il dottor Pershing – un uomo che ci viene presentato come timido, gentile, genuinamente pieno di rimorsi per il suo coinvolgimento nelle faccende dell’Impero –, insomma, com’è possibile che Pershing, dopo pochi giorni di lavoro regolare, atto a reintegrarlo nella Nuova Repubblica, decida scientemente di rischiare di nuovo ogni cosa per portare avanti la sua ricerca? Com’è possibile che Pershing, un uomo evidentemente intelligente, brillante, e capace di grandi cose dal punto di vista scientifico, sia così cieco da non intuire una minaccia dietro l’immediata disponibilità di Kane ad aiutarlo, anche se non sembra che possa guadagnarci niente, se non problemi ulteriori?

Senza poi voler commentare più del dovuto altre sequenze di dubbia utilità, o quantomeno non particolarmente brillanti: si pensi alla fuga dal controllore sul treno, o ancora meglio, a Kane che si scusa con Pershing per non essersi presentata a lui quando lavoravano entrambi per Moff Gideon, nel bel mezzo della loro infrazione nei magazzini della Nuova Repubblica. Se non fosse evidente il contrario, sembrerebbe che Pershing abbia volutamente messo in atto una manovra di autolesionismo priva di qualsiasi appiglio con la realtà diegetica: le svolte narrative del fulcro narrativo del Capitolo XIX si reggono in piedi con lo scotch. Questi trenta minuti semi-deliranti erano davvero necessari per far sì che si affacciasse di nuovo il fantasma dell’Impero?
Nel frattempo, un reticolo di riferimenti interni ed easter eggs stratifica il discorso, e concede perlomeno una maggiore dignità alla core structure dell’episodio. Un esempio: mentre il dottor Pershing viene ammanettato a un lettino e tenta di chiarire le proprie intenzioni iniziali – e prova a spiegare che Kane l’ha ingannato – gli scappa una frase che diventa immediatamente metadiscorsiva: «It was a trap!». Coincidenza vuole che la frase venga rivolta a un assistente della specie dei Mon Calamari: a chiunque abbia utilizzato i social network nell’ultima decade, sarà più che familiare il famoso meme dell’ammiraglio Ackbar, e di quella che in ambito post-umoristico è diventata la sua catchphrase di riferimento.

Allo stesso tempo, che questo piccolo frammento di metadiscorso comico venga inserito al culmine della sequenza più drammatica dell’episodio, dà un po’ un riferimento del modo in cui l’episodio è stato scritto e pensato – specialmente, come già detto, per quanto riguarda le vicende di Pershing e Kane. Questi sono i rischi, d’altronde, di voler costruire una narrazione su cardini archetipici fin troppo noti, e violentemente auto-espliciti, senza operare di scalpello: che la trama diventi un canovaccio privo di credibilità narrativa. Resta solo da sperare che questa puntata di transizione possa agire da gateway per futuri colpi di scena, e per modi differenti di stupirci di nuovo.
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