
La tragica storia di un CEO qualunque. Perché il Faust di Giovanni Ortoleva invecchia bene.
Le domeniche ci piace passarle così, con il profumo di basilico nelle narici o ripristinando quell’intrattenimento un po’ demodé – perché richiede una certa dose di fatica e in cambio promette di spezzare amicizie decennali – che sono i giochi da tavolo.
Di recente, in uno di quelli in cui bisogna mimare il personaggio scritto su un bigliettino, è comparso il Dottor Faust, magistralmente incarnato da uno dei giocatori della domenica in una forma che, se ci pensiamo, fa parte del bagaglio immaginifico di ognuno di noi: lo studioso maldestramente ingobbito che stringe una mano inesistente- rappresentativa del patto, e poi sfoglia ancora e ancora qualche volume; quadretto che il mio amico Valerio ha corredato con un bel paio di corna diavolesche piazzate dietro la sua testa di interprete.
Solo qualche giorno dopo sono andata a vedere La tragica storia del dottor Faust, diretto da Giovanni Ortoleva e già recensito qui su Birdmen Magazine, con gli occhi ancora intrisi della performance degli amici della domenica; inconsciamente, questa rispecchiava ciò che mi aspettavo di vedere in scena al Teatro Fontana (no, non proprio Valerio, ma neanche qualcosa di troppo dissimile).

Perché pigramente andavo alla ricerca di qualcosa di familiare? Perché, innanzitutto, tra i modi di intendere l’immaginario collettivo – muovendo torti più o meno gravi a Jung – c’è l’uso del termine in funzione parafrastica per indicare la produzione di storie, personaggi, ambienti che presiede alla produzione culturale: in questo senso esistono discorsi, immagini, consapevolezze che i membri di una (o più) società condividono. A questo si aggiunga il fatto che, a prescindere dai più noti adattamenti (da Marlowe a Calderon de la Barca, da Goethe a Stein, da Valéry ai nostrani Landolfi e Sanguineti, e questo tralasciando le versioni musicali o cinematografiche), Faust è il protagonista di un racconto popolare, cioè incarna la qualità storica di un popolo con le sue norme scritte e non scritte, direbbe il Pasolini delle Lettere luterane, che regolano il funzionamento del paese nel suo insieme. Tuttavia, in quanto fiaba che si attiene allo schema di Propp, il personaggio faustiano non è un chi definito nel tempo e nello spazio storico, ma è un cosa fa a seconda del contesto in cui si trova ad agire. Per questo oggi parliamo, ancora, di uno spettacolo già recensito: perché è uno spettacolo che potenzialmente invecchierà bene, benissimo.
Giovanni Ortoleva trae liberamente il proprio adattamento dalla versione di Christopher Marlowe, e ne introietta alcune delle rarefatte domande senza risposta che ci attanagliano da prima che ne riusciamo a conservare memoria: chi sta sotto al letto? Chi siede sulla sedia al posto nostro? Chi ci sta guardando da dentro lo specchio? Chi fa rumore là fuori? Chi è? Chi sei?
Mai didascalico, del fiabesco tiene l’aspetto spaventoso ma anche quello della rappresentazione pedagogica nel formato delle marionette, potendo fruire degli spunti creativi di un caratterista superbo quale è Edoardo Sorgente e di un’attrice esperta come Francesca Mazza. Spazialmente bidimensionali, privi della capacità pratica di abitare il mondo delle cose – trasposizione metaforica del gelo macchinico guattariano potenziato, a rendere freschi e vivi Faust e Mefistofele è un linguaggio pieno di calore. Qui Ortoleva compie un’operazione scaltra: del Faust prende il canovaccio, lasciandosi dei grossi spazi autoriali che riguardano alcune diramazioni della trama, qualche snodo e, soprattutto, la freschezza di una ingua che mescola aderenza e tradimento dell’originale. Così, come nelle migliori fiabe tramandate oralmente, si mantiene la rima baciata – a rafforzare l’aspetto della litania per fanciulli – resa con le parole del nostro presente, con il nostro gergo popolare, scurrile, condiviso.

Dentro questa trama precisa e replicabile, c’è lo spazio per l’autorialità vera, che Ortoleva si concede, reclama e offre anche ai suoi interpreti. Dentro questo contenitore di messaggi che è il racconto faustiano (il mio amico Valerio ingobbito che stringe mani e si mette da solo le corna in testa) c’è la voce di un regista in piena connessione con il suo tempo, in ascolto delle urgenze del suo pubblico e fedele al proprio personalissimo spirito polemico.
Ortoleva è dissacrante, anticlericale, sfiora la retorica generalista solo per riderne subito dopo, e racconta la giornata di un CEO qualunque dei tempi moderni. Come un Copenhagen Cowboy, questo Faust – cioè il Faust di questo momento della vita scenica dello spettacolo – attraversa i mali del nostro tempo. I lavoratori di piattaforma e le ferie date come ossa ai cani, lo scempio della natura, gli spazi enormi senza spazio vitale, i soldati dovunque che non fanno la guerra e la guerra, quella vera, che ci facciamo uno contro l’altro, la sazietà e l’opulenza e l’esorbitante insoddisfazione, le donne manichino e gli uomini stilisti, gli uomini violentemente fragili e le donne non femministe perché femminili. La storia di un miliardaruncolo che con la funzione di cancellazione rumore delle sue Airpods Pro elimina il lamento del mondo, lo startupper del delivery, il demiurgo dell’opinione pubblica non di un solo paese ma dei miliardi di utenti che fanno finta di incontrarsi sulle sue piattaforme. Questo Faust è un CEO qualunque, ma nel suo mettere a tacere la coscienza è anche il criminale della transizione energetica, il militare che fa il colpo di Stato e il politico che glielo fa fare, cioè con il male come lo conosciamo oggi.
Per questo, se Ortoleva lo volesse, questo spettacolo potrebbe funzionare – con qualche riscrittura interna per farlo risuonare con il pubblico che sarà – anche tra trent’anni: perché il vero patto è quello con che Ortoleva stringe con il potere narrativo di un canovaccio che vive, come l’amore di Borges, per la lunga “notte intemporale”; ed è un patto con il teatro stesso che a questa metamorfosi vitale riesce ad adattarsi.
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