
Padri e figli – Dialogo generazionale ne Il figlio che sarò
È un’affermazione, ma potrebbe apparire come una domanda il titolo del dramma (Il figlio che sarò) andato in scena al Teatro Fontana (qui per informazioni sulla nuova stagione) di Milano, regia di Fabrizio Saccomanno, spettacolo ispirato da Lettera al padre di Franz Kafka.
Rievocando i pomeriggi nei quali i suoi studenti si preparavano per l’esame di maturità nella propria casa sulle note di varie canzoni (spicca su tutte Let’s get lost di Chet Baker), Vito entra in scena. Appare Giovanni, suo alunno oramai cresciuto e i due iniziano a parlare. Un dialogo, un viaggio lungo il viale dei ricordi fino al nostro presente. Né tragedia, né commedia, solamente il parlare tra Giovanni (Giuseppe Semeraro) e Vito (Gigi Gherzi), un dialogo nel quale i due interlocutori si raccontano cosa è avvenuto dal momento in cui si sono separati, dialogo centrato su Giovanni che racconta il rapporto con il figlio, presenza evocata, personaggio che appare solo attraverso le parole del padre.

Nel raccontare i propri problemi con il figlio, Giovanni trova nell’anziano Professore un interlocutore attivo, che reagisce alle lamentele del suo cresciuto studente, facendogli ricordare il figlio che lui è stato. Avviene così che le generazioni si incrociano, si va indietro nel tempo della memoria a quando Giovanni era ragazzo. Appare dunque nelle parole dei due il padre di Giovanni, soprannominato “Attila”, un padre-padrone, un’individuo che complica il rapporto tra i piani temporali: passato e presente dialogano sullo sfondo di quell’indefinito futuro che il figlio di Giovanni rappresenta e al centro di tutto il rapporto tra padri e figli, visto da diverse angolazioni.
L’essenzialità assoluta della costruzione scenica (un cubo è l’unico elemento che emerge dal buio dello sfondo) dona centralità alla parola, al racconto che non rinuncia all’impiego del dialetto, che conferisce una maggiore concretezza al dialogo, ma anche, viste le scelte lessicali, un tono talvolta grottesco alle immagini. Le luci scandiscono i tempi di questo dialogo, i tempi dello spettacolo: segnano l’inizio (non c’è sipario che si apre) e la fine (non c’è sipario che si chiude), ma luce che ora si dirada ora si fa più intensa.

Questi padri non hanno fatto nulla per guadagnarsi la fiducia assoluta che pretendono dai loro figli. Non sono né migliori né peggiori dei figli che criticano, non hanno prodotto quel cambiamento che si attribuiscono, predicano bene per agire poi male. Sono «padri facciata», «padri cornacchia», «padri megafono» per indicarli con le parole di Vito, che nella sua carriera di insegnate ha avuto modo di vedere tanti padri, padri che non hanno più sogni.
Chi è il “figlio che sarò” del titolo? E il figlio di Giovanni o è Giovanni stesso? L’ambiguità dei tempi verbali potenzia l’immagine di un’eterna adolescenza vissuta, di un’eterna crescita. Benché Giovanni sia cresciuto (coincide la crescita con la perdita dei sogni?) egli mostra ancora tutte le incertezze che aveva da ragazzo, ma che da adulto vuole nascondere, obliterare. Rievocando il passato, rievoca il rapporto con suo padre, definendosi «il figlio che io sono»; un’affermazione realistica (egli è stato figlio, egli è figlio) che si carica di una forza poetica (anche facile a strutturarsi) nel momento in cui si mette a confronto con il «sarò» del titolo.
Alla fine di tutto c’è il sogno di Vito, i suoi occhi che fissano un’immagine che il pubblico riesce a vedere attraverso le sue parole: egli vede tre sguardi, padre, figlio e nonno che popolano una spiaggia. Tre sguardi… e su questa immagine tutto si conclude, un’onirica visione che si consegna allo spettatore. «Tre occhi» sussurra la voce del Professore e le luci si spengono. «Sulla spiaggia adesso ci sono tre uomini di quindici, quaranta, settanta anni. Occhi di padri che guardano figli. Occhi di figli che guardano padri».
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