
Il Festival di Sanremo 2023 tra meme, messe in abisso e cross-medialità
Ormai il Festival di Sanremo non è più soltanto un Festival, ma piuttosto una grande parata dei contenuti più disparati che, per cinque giorni, contagia e ingloba tutto il palinsesto, e non solo quello. Perché il “discorso pubblico”, dai bar alla politica, dalla lode alla critica, si impernia su quello che avviene al Festival, colto come cornice di un preciso “sentimento del tempo”, un blob che assorbe e fagocita tutto nel più generalista dei modi, dal meme all’istanza politica, dal messaggio progressista all’italianità più tradizionale e nostalgica. Insomma, il Festival di Sanremo, più che una trasmissione musicale, assume i tratti di un’allucinazione collettiva.

Per cinque serate, più di quindici milioni di spettatori (media record del 63,38% di Share) hanno praticato binge-watching con una trasmissione televisiva che cresce esponenzialmente da anni e che, negli ultimi quattro, ha saputo creare una continuità narrativa all’interno del proprio racconto. Fenomeno di riconoscimento, collettivizzazione di sdegno e tifo, Sanremo sta diventando un vero e proprio oggetto seriale, in cui i protagonisti tornano e ritornano nelle vesti più diverse: Elodie conduttrice e due volte cantante, Fedez prima in gara e quest’anno scheggia normativamente impazzita, Fiorello per due anni spalla e infine al DopoFestival, Maneskin vincitori e due volte ospiti. Tra fissi e guest, i personaggi sono quelli. E lo stesso vale per Morandi, Levante, Arisa, Grignani e molti altri.

Insomma, il Festival di Sanremo, scomponibile in clip, rifruibile su RaiPlay, commentabile nei salotti del daytime, è una serie tv in diretta che parla di come la canzone popolare non basti a sé stessa, di come il suono abbia bisogno di un’immagine forte, divisiva, che si possa fischiare e applaudire nello stesso momento. E il protagonista cambia ma, nelle sue funzioni, è sempre lo stesso, proprio come in James Bond o Doctor Who. Ma l’aspetto seriale del contenuto televisivo non è l’unico a trasmutare l’originale natura piana del Festival, nell’agglomerato poliedrico e pervasivo che è oggi.

La settantatreesima edizione appena conclusasi con la vittoria di Marco Mengoni sembra istituzionalizzare quella che si può definire una “formula Amadeus”, un approccio che predilige la fruibilità televisiva all’inviolabile sacralità della gara canora. A questo si aggiunge una particolare cura alla composizione del cast in ottica spettacolare e multiforme, la predisposizione alla violabilità del palco come unico scenario del racconto e, a livello pubblicitario, una compenetrazione tra brand e show, con la musica che si infiltra negli spazi pubblicitari e i marchi che si accomodano all’interno della trasmissione.

Con Amadeus, ad esempio, non è più vietato interloquire con l’artista in gara, prima e dopo l’esibizione, una scelta emblematica nel suo favorire un andamento discorsivo. Il Festival di Sanremo sembra perdere quell’aura di autoritaria solennità televisiva tipicamente baudiana, proprio in virtù di una conduzione scanzonata, appositamente e piacevolmente sbavata, accogliente nei confronti dell’imprevisto, dell’interruzione della liturgia, da «Le brutte intenzioni» fino allo sterminio botanico di Blanco. Se ad inizio anni duemila, in un format tipicamente rigido e con poco spazio di variabilità come il quiz show “L’Eredità”, un concorrente veniva cacciato dallo studio dopo aver risposto “la cipolla” proprio in nome del corretto svolgimento della trasmissione, oggi, il povero Pedro sarebbe sì sgridato, ma anche ineluttabilmente usato a scopo d’ascolto, rifratto nei media più diversi.

Il «Che succede?» di Morgan dopo l’uscita dal palco di Bugo nella settantesima edizione del festival riassume al meglio l’ambiguità di questa nuova formula Sanremese, in bilico tra candore e colpevolezza, tra imprevedibilità e costitutiva predisposizione a quest’ultima. Perché, se negli anni novanta il Festival di Sanremo si reggeva su un andamento didascalico, su una conduzione compilativa, di intramezzo tra una canzone all’altra, oggi sembra appoggiarsi proprio sulla malleabilità della scaletta-flusso, aperta alla forza dirompente dell’umanità. Un’umanità che però – e questo è un fattore culturale, non solo Sanremese – finisce per mosaicizzarsi e appiattirsi in una lunga parata di immagini diverse, di mitologie e post-verità (vedi il bicchiere lanciato da Oxa a Madame) fruite però in modo sempre identico.

Certo, il Festival, in quanto vetrina, è da sempre stato a portata di scandalo, palco risonante per le epifanie più differenti: ad esempio, l’irruzione di Cavallo Pazzo in apertura nel 1992, il finto tentativo di suicidio nel 1995, quello di due operai nel 2014. Ma oggi, questa pratica si istituzionalizza. Il risultato è un Festival che, seguito soprattutto da un inedito target di pubblico giovanissimo, strizza l’occhio al meme, ovvero al frammento culturale o sotto-culturale, un immagine forte e chiara, semplice, che si propaga grazie a un processo imitativo di ri-condivisione, attraverso i social in primis. Così, quel momento così umano e potente in cui un giovane ventenne, tra imbarazzo e rabbia, inizia a spaccare vasi e piante, diventa ghiotta occasione autoriale, per far entrare Morandi con una scopa a pulire. E anche Morandi con la scopa diventa leitmotiv memetico. Sembra quindi inevitabile che, come linea comico-distopica di quest’ultima edizione, ci sia Instagram: l’innesto di dirette all’interno della diretta, l’emancipazione digitale del “boomer” Amadeus, ovviamente favorita dalla presenta di Chiara Ferragni.

Parlando di televisione, nel finale de Il Settimo di Continente (1989) di Michael Haneke, un intero nucleo familiare giace esanime davanti all’assenza di segnale di una televisione che, pur vuota di contenuti, continua a trasmettere, a parlare senza dire nulla, sopravvivendo all’essere umano. Questa immagine coglie con precisione la natura tirannica del mezzo televisivo, il suo voler decidere il discorso senza ammettere alcun tipo di interlocutore. Insomma, in televisione, la tradizione vuole che l’unico a poter parlare sia il Broadcaster e che gli spettatori non possano che ascoltare, senza rispondere. Al massimo, spegnere o cambiare canale. L’artista coreano Nam June Paik ha tentato di sovvertire questa gerarchia comunicativa. Ad esempio, nell’installazione Magnet Tv (1965) usa dei magneti per alterare il flusso dei segnali elettronici sullo schermo di un televisore, intervenendo quindi sull’immagine e rendendosi un paradossale spettatore attivo, in grado di modificare il messaggio televisivo, di intervenire su ciò che viene trasmesso, rendendo quindi reversibile la direzionalità dell’enunciazione.

Con le dovute e radicali distinzioni tra l’ambito dell’arte contemporanea e video-installativa e quello del programma più nazional-popolare del nostro paese, elementi come i meme, i tweet sfrenati e il Fantasanremo si trovano a intervenire nelle edizioni timonate da Amadeus, rendendo il Festival teatro di un discreto grado di permeabilità del discorso televisivo ad opera degli spettatori: uno scardinamento dell’abitudine comunicativa simile a quella operata da Nam June Paik. Gli artisti pronunciano «papalina» e abbonano mandolini sulle scale, regalano rose al conduttore e seguono i dettami dell’ironico gioco meta-festivaliero che, nato in un bar come intrattenimento per studenti fuorisede, è diventato una diffusissima “messa in cornice” dell’evento, definendo gli avvenimenti che accadono sul palco. Quest’anno e ancora di più l’anno scorso, i micro-atti gestuali e verbali del Fantasanremo dominavano gli interventi degli artisti, li regolavano da remoto in maniera interattiva.

Può essere visto da una parte come l’asservimento più totale degli artisti alle loro fanbase tiranniche (ad eccezione di una stoica Anna Oxa, chiusa in una sorta di torre d’avorio), dall’altra come spontanea attestazione di interesse verso Sanremo: in fondo, un rituale che produce un altro rituale non è che un prodotto culturale vivo e in salute. Si può dire che se quella di Sanremo rappresenta una competizione canora, il Fantasanremo tenta di normativizzare la competizione televisiva, quella che negli anni ha reso Sanremo analizzabile e criticabile, mondano. Inoltre, proprio come i tanti gruppi d’ascolto, le dirette Instagram in simultanea, messe in abisso narrative, racconti nel e del racconto, rendono cross-mediale un prodotto che, per sua natura è già inter-mediale.
Insomma, sembra che nel 2023 il Festival di Sanremo sia arrivato ad un punto di non ritorno, tra istituzionalità da eurovisione e dissacrante commento domestico. Il bacio tra Fedez e Rosa Chemical, falso-imprevisto, riassume al meglio tutto questo in maniera simbolica, quasi didascalica: un individuo seduto nel pubblico interviene sul palco e, viceversa, l’artista profana il palco e accede alla platea, prende per mano lo spettatore e lo trascina sul palco con lui, lo rende perno della performance: un tutto-spettacolo. In questa grossa massa informe, affollata e rutilante, i cantanti lanciano messaggi politici, i politici si esprimono sulle canzoni che ritengono più consone e gli spettatori si riuniscono in un iper-salotto grande come tutto il paese. Gli schermi attraverso cui guardiamo si moltiplicano, ma il setaccio attraverso cui elaboriamo sta diventando preoccupantemente unico e ineluttabile. Il rischio è di banalizzare l’atto stesso del fruire un racconto, qualsiasi esso sia, di sterilizzare il rapporto tra spettacolo e pubblico. Ma per esprimerci in modo definitivo, si deve aspettare l’anno prossimo, l’episodio 74X01.
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