
Intervista a Pupi Avati – Il mio Dante, poeta sublimato dal dolore
Sempre più spirituale, indomito, tenace, visionario, il regista Pupi Avati sembra essere in forma smagliante. L’autore de Il Signor Diavolo sembra non soffrire troppo l’emergenza in atto, ma anzi è pervaso da un’esplosione di creatività, che lo porta a dedicarsi a vari progetti. Dopo la sua commovente lettera alla Rai e dopo l’approvazione da parte della medesima emittente del suo epocale progetto sulla vita di Dante Alighieri, il regista bolognese ci svela alcuni retroscena sui suoi attuali lavori, senza però nascondere alcune paure e alcune incertezze in merito al futuro dell’industria cinematografica.
Buongiorno Pupi, grazie di averci concesso questa intervista. In questo periodo di crisi pensa che il cinema possa aiutarci ad evadere e a scoprire nuovi mondi?
Certo! L’ho scritto in un appello che ho fatto alla Rai, chiedendo di riproporre non solo il cinema, ma tutto ciò che di bello e straordinario è stato fatto in passato e che è stato completamente rimosso: quindi grandi classici del cinema, sicuramente. Facendo molti corsi di recitazione e frequentando molti giovani, in questo ultimo decennio, mi sono reso conto di una mancanza, di un’ignoranza da parte dei giovani nei confronti di quelli che sono i fondamentali della cultura cinematografica, dai quali non si può prescindere. La televisione ha il dovere, in quanto servizio pubblico, di acculturare il Paese, perché in questo momento ci sono tutte le condizioni per poterlo fare, anche al di fuori di quel ricatto tremendo che è l’Auditel: quel ricatto secondo cui bisogna rispondere continuamente agli inserzionisti pubblicitari. Quindi oggi veramente con un mercato praticamente chiuso si potrebbe azzardare qualcosa di culturalmente più valido e puntare sulla bellezza delle cose. La Rai lo fece, però si può fare molto di più.
Secondo lei perché la Rai non diffonde questi contenuti che ha e che potrebbe trasmettere?
I palinsesti non li fanno i direttori di rete o di fiction o gli amministratori delegati o presidenti, li fanno gli inserzionisti pubblicitari che, mettendo la pubblicità, finanziano quello che va in onda, e quello che va in onda obbedisce solo alla logica dei numeri. Ha un valore solo numerico e acquisisce una valenza in quella pagella che ogni mattina un dirigente o un funzionario si trova sulla scrivania, che ti dice se sei stato bocciato o promosso. Quante volte sui giornali leggiamo: “Vince la serata…” o “Perde la serata…” Sono sempre criteri prettamente numerici, come se fosse il numero a fare la qualità, ma noi sappiamo bene che è proprio il contrario.
Parlando invece di una notizia positiva, sappiamo che è stato finalmente avviato il suo progetto su Dante.
Sì è stato approvato finalmente dopo diciotto anni. Ha una genesi che nessun progetto in Italia ha avuto. Sono diciotto anni che io propongo alla Rai con ostinazione e costanza questa Vita di Dante Alighieri nella convinzione che gli italiani debbano sapere chi è stato il Sommo Poeta, perché hanno una vaga idea scolastica di chi lui sia stato e di cosa sia la Divina Commedia; della vita e del suo autore sanno ben poco. Oltre al fatto che sia stato esiliato, che abbia avuto un amore per una certa Beatrice, ben pochi sono gli elementi che si conoscono sulla vita di Dante Alighieri. Siccome abbiamo l’opportunità della ricorrenza dei settecento anni (che si celebreranno nel 2021) della morte di Dante, possiamo avere un film che racconti la vita di Dante Alighieri, raccontata da un suo contemporaneo: Giovanni Boccaccio. Dopo molti anni dalla morte di Dante, Boccaccio, che era un grande studioso del Poeta, un grande promoter delle sue opere, andò a Ravenna a cercare notizie e tracce sulla sua vita. Incontrò la figlia di Dante che era una suora e di lì incontrando i sodali e gli amici ancora in vita, è riuscito a raccogliere varie notizie e informazioni, sulle quali si è basata la prima biografia di Dante scritta proprio da Boccaccio. Tutto quello che noi sappiamo di Dante lo dobbiamo a lui. Quindi è uno spunto narrativo molto intrigante quello di raccontare come Boccaccio è andato via via scoprendo chi sia stato questo Sommo Poeta, questo personaggio culturalmente ineffabile, che va al di là di ogni immaginazione.
Cosa la affascina di più di questo personaggio?
Della figura di Dante mi affascina il fatto che sia una conferma, purtroppo non piacevole da dirsi: se Dante è arrivato a sublimare sé stesso attraverso la poesia, una così alta poesia, è stato anche attraverso il dolore. Veramente la vita di Dante è stata segnata dal dolore. Aveva cinque anni quando è morta sua madre, nove quando ha incontrato Beatrice, che poi è morta. Poi è stato mandato in esilio e ha scritto la Divina Commedia nella convinzione che quell’opera avrebbe fatto sì che i suoi concittadini lo avrebbero riaccolto a Firenze, eleggendolo poeta, ma la cosa non avvenne. Dante morì prima, in esilio. La sublimazione del dolore e come il dolore permetta di accedere a un livello di conoscenza superiore. La sua cultura e la sua conoscenza delle cose, ma anche la sua conoscenza dell’uomo, e la sua capacità poetica devono molto al suo dolore.
Come saranno coinvolte le città di Ravenna e Firenze nel progetto?
La città di Firenze sarà coinvolta in tutta quella parte iniziale in cui Boccaccio riesce ad ottenere l’incarico di andare a Ravenna e poi nella parte dei flashback, in tutto il racconto che riguarda la vita di Dante da ragazzo, da adolescente, il suo matrimonio con Gemma Donati, i suoi corteggiamenti a Beatrice. Ravenna ha ancora più peso perché rappresenta il punto di riferimento di Boccaccio. È Ravenna a custodire le ossa e le memorie di Dante. Quando Boccaccio arriva a Ravenna, oltre alla figlia di Dante che sta in convento, incontra una serie di personaggi ancora vivi che hanno conosciuto il poeta. A Ravenna poi c’è la pineta di Classe e i Mosaici che hanno ispirato la vita di Dante, luoghi fondamentali per aver ispirato anche il Paradiso. Ravenna è davvero centrale nella sua vicenda umana, è il luogo dove trovò la pace.
Sta anche scrivendo il seguito de Il Signor Diavolo, fra gli altri progetti?
Sì, quando ho lasciato in quella cripta questo personaggio che cercava la verità in quel buio di quella lapide sotto la chiesa, mi è parso assolutamente irrisolta la storia. Questo finale mi ha aperto un’infinità di prospettive e volevo raccontare sia a me stesso sia agli altri ciò che è successo dopo a quell’essere umano lasciato là sotto.
Le dà sollievo scrivere?
Sì. Devo dire che lo scrivere coincide con un momento della mia vita in cui avevo bisogno di qualcosa che mi portasse altrove, sennò è evidente che uno stando in casa si impigrisce di fronte alla televisione, invece avere questo altrove, in cui immergermi, mi fa bene.
Mi ricordo che lei una volta dichiarò di essere affascinato dalla possibilità che offre la scrittura di fare digressioni.
Certo! Il cinema non permette di fare digressioni, aprire e chiudere parentesi, andare e ritornare alla storia, approfondire la psicologia e riuscire a dire quello che nell’interlocuzione i personaggi dicono e quello che pensano in realtà. La scrittura è uno strumento più generoso, puntuale di quanto non sia un film. Dà più informazioni. Edgar Allan Poe arrivò a dire una cosa che non condivido: tutto quello che si può immaginare si può scrivere. La parola riesce a rendere in modo esaustivo il pensiero. Io però sono rimasto senza parole vedendo quell’immagine del Papa in una Piazza San Pietro completamente vuota. Non sarei capace di descrivere con le parole un’immagine del genere. Quell’immagine ha prodotto in me un’emozione, talmente forte. Quel Papa, la sua fragilità, la sua stanchezza fisica e la sua incertezza nel sollevare l’ostensorio. C’era un senso di limite dell’essere umano nei confronti del dio che implorava che non si può descrivere a parole. Io non avrei le parole. Quando si avverte questo limite, lo si definisce ineffabile. Poe diceva che non esiste l’ineffabile, ma se si guarda quell’immagine, si capisce che l’ineffabile esiste.
Dai momenti di crisi si possono però cogliere grandi opportunità?
Ci sono personaggi come Dante o Dostojevski che hanno trovato sé stessi nel dolore o nella paura. Anche la paura ha un’accezione negativa, perché la paura produce un’eccitazione della tua sensibilità, un essere totalmente presente a te stesso. Per questo dico che in questo momento, in cui le persone sono così spaventate, per vari problemi, la loro sensibilità è al massimo. Quando la sensibilità è così forte a livello di percettività, allora dovrebbero approfittare di questo momento per fare soltanto cose belle e rendere lenitiva, terapeutica la bellezza.
Lei spesso ha rappresentato nei suoi film il concetto del male connesso anche al buio e alla paura, soprattutto nei suoi film più Horror. Come si interfaccia ai suoi ricordi, nella rappresentazione del male?
Il male esiste perché non solo lo subiamo, ma lo pratichiamo anche. Quante volte mi è capitato di godere delle sfortune dei miei colleghi! Lì stava emergendo la parte peggiore del mio Io e stavo dando il peggio di me stesso. Il male è una presenza che ho incontrato, soprattutto quando è finalizzato al male. Fare il male per il male, per fare il male, per confermare il proprio potere: ci sono un’infinità di modelli ai quali ci si ispira. Ecco io fino a quel punto non sono arrivato, a fare il male per il male, ma l’ho subito, molti hanno agito nei miei riguardi, vittime di una situazione negativa, di una polarità negativa. Purtroppo queste persone esistono e sono il Diavolo. «Il maggior trucco del Diavolo è stato quello di convincerci di non esserci» diceva Baudelaire.
Spesso cita Fellini all’inizio del suo percorso. Come la ha influenzata?
Fellini è stato liberatorio nei riguardi di quel tipo di cinema circoscritto al racconto in terza persona. Fellini ci ha spalancato gli occhi e legittimato a raccontare in prima persona con un cinema che è diventato in me ombelicale, raccontando in prima persona quello che si vede e non si vede. Dilatando e aprendo il cinematografo, facendolo diventare molto di più di quello che era allora, nel creare un racconto più personale e meno ricco e coinvolgente. Poi Fellini mi ha influenzato molto a causa di una vicinanza logistica, una terra comune, anche se lui era romagnolo e io emiliano. Ho sempre desiderato essere romagnolo…
Perché avrebbe voluto essere romagnolo?
I romagnoli sono più autentici e hanno una componente di follia, una mancanza di controllo, un’esuberanza. Non hanno il calcolo come atteggiamento primario. L’emiliano è sempre vittima di ciò che gli conviene, ed è un grandissimo mediatore, deve convincere tutti i contraenti che stanno facendo un affare.
Ha detto spesso di avere nostalgia del presente, ma pensa che proverà nostalgia di questo periodo una volta che sarà finito?
Ne ho già adesso. È un tempo così sospeso. Mi sveglio la mattina e davanti a me ho una giornata intera, da riempire di cose che decido io e non decidono gli altri per me. Quando questo periodo finirà è logico che entrerò in un meccanismo subordinato a una serie di funzionamenti che mi derivano da quello che è il mio ruolo all’interno della società, ma adesso questa responsabilità di ruolo non ce l’ho, ne sono assolto. A parte il dolore per coloro che stanno morendo, per quanto riguarda me, considero questo momento una vacanza, da usare come una sorta di igiene mentale per migliorarmi e devo dire che lo sto facendo. Credo che la maggior parte di noi uscirà da questa esperienza migliore.
Pensa come David Lynch che usciremo più spirituali dalla crisi?
Non ho dubbi.
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