
L’appuntamento, ovvero un cazzo ebreo
Il 5 ottobre al Teatro Franco Parenti di Milano è andato in scena L’appuntamento, ovvero un cazzo ebreo: un adattamento teatrale del romanzo The appointment: A Novel di Katharina Volkmer, con la performer Marta Pizzigallo diretta da Fabio Cherstich.
Il lavoro di adattamento sprigiona una forza portentosa, fedele alla trama del testo a cui si ispira. La protagonista è una persona che, non riconoscendosi nel corpo che ha per nascita, decide di fare un’operazione per poter cambiare il suo sesso. Tedesca, trasferitasi a Londra, sceglie il dottor Seligman, l’ebreo che le donerà finalmente il suo “cazzo ebreo”. Nel testo ricorre un motto di spirito a proposito di questa scelta curiosa che, a detta della protagonista, sarebbe l’atto più rivoluzionario, in grado di espiarne il senso di colpa ereditato dai crimini dell’Olocausto. L’ironia ricorrente nasconde così la volontà e lo sforzo individuali di cambiare ciò che, di fatto, non può essere modificato.
Lo spazio scenico non è mai lo studio del dottor Seligman: abitiamo in realtà lo spazio della mente della protagonista, all’interno della quale avviene, infatti, questo tentativo di espiare le colpe dei genitori, dei nonni, attraverso un graduale percorso di consapevolezza, accettazione e liberazione di sé, che seguiamo in tutte le sue tappe.

È stato detto, non a caso, del libro di Volckmer, che è un testo irriverente e provocante. Lo spettacolo rispetta le promesse di questa scrittura e il dispositivo scenico creato da Cherstich ne amplifica la potenza visiva e adotta il desiderio come motore. Il desiderio di ritrovarsi nel proprio corpo, di essere ascoltat*, di non essere considerat* mostri, di voler eliminare il senso di colpa che, in un occidente cristiano-cattolico, attecchisce su tutt*, senza scampo per nessuno; il desiderio di godere del proprio corpo, anche con il corpo di qualcun altr*; il desiderio di centrare e poi esprimere i proprio desideri: «c’è chi ci riesce già da subito e c’è chi passa metà della propria vita a capirli, come me», sentiamo dire alla protagonista.
Pizzigallo è stregante: il suo corpo, contorto in piccoli spasmi, disarmonico, scomodo sullo sgabello, palesa il disagio provato da una persona che non si riconosce nella forma fisica in cui è venut* al mondo. Stringe forte il microfono fra le mani come fosse l’unico appiglio, l’unica certezza nel flusso di parole del racconto della sua vita, a cui Seligman e noi assistiamo in silenzio. Le parole, una dietro l’altra, cercano alternative a quello che le è sempre stato detto di perseguire, di essere, smascherano fragilità e contraddizioni del nostro vivere contemporaneo. Attraverso questo ragionare la protagonista cerca, di volta in volta, di disegnarsi e ridisegnarsi, in ascolto dei propri desideri, in nuove forme. Sono rare, però, le volte che abbandona lo sgabello e si discosta dalle cornici che la inquadrano sin da subito.

Tutto lo spettacolo è permeato da un forte attacco ironico al binarismo, struttura sociale che divide gli scaffali dei giocattoli in una parete blu e una rosa, i bagni pubblici in una porta per le donne e una per gli uomini. La denuncia si scaglia verso un sistema che ingabbia «l’ennesima donna che si è lasciata trasformare in una piccola cosa graziosa, intimorita all’idea di muoversi e di far cadere una delle sue decorazioni, sia mai qualcuno noti che non è nata così», verso un mondo che «prova a tenere le persone senza cazzo al posto loro», alimentandone le insicurezze.
La protagonista però, seppur con fatica e in solitudine, al “proprio posto” non vuole stare. Rincorrendo il desiderio, si fa sensuale con brevi partiture fisiche che interrompono il flusso della narrazione; racconta di bizzarre fantasie sessuali con Hilter, attacca la famiglia borghese che vede un padre oggetto di incomunicabilità e una madre che ha sempre tentato di controllarla.
Soprattutto, la sua volontà di liberazione si esprime attraverso i colori della relazione non convenzionale che ha con K, un pittore che si sforza di amare a modo proprio. Nello studio di K, prima di ogni momento erotico, i due dipingono vicendevolmente i corpi, diventando puro colore; così, in scena la pelle della protagonista viene dipinta: una lente circolare inquadra il volto dell’attrice e, mentre cambia colore, segnala il tentativo di ridisegnarsi e il costante modificarsi della percezione di se stess* e della propria storia.

Alla fine dello spettacolo, il viaggio verso la consapevolezza. Dallo studio di K, situato nel retropalco, della vernice inizia a gocciolare sulle vetrate opache che fanno da sfondo alla scena: barattoli, pennelli, oggetti svariati e difficili da identificare, dipingono quella tela, dando l’impressione di volerla oltrepassare. I colori si mescolano, cambiano sempre forma, si acquietano e fermentano di nuovo. L’operazione del dottor Seligman sta per essere compiuta: mentre il dottore indossa dei guanti in lattice, Pizzigallo ci regala le ultime parole di Volkmer: «Facciamoci oro, dottor Seligman/ Cambiamo forma nei secoli, ma senza mai scomparire / Teniamoci per mano/ Facciamoci guerrieri».
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[…] agghiaccianti, sangue che cola, creature sull’orlo di psicosi e quadri raccapriccianti. Ideata da Fabio Cherstich, la scenografia è un insieme di abitacoli scorrevoli che, di volta in volta, vengono portati in […]