
Così è? Non mi pare. Ovvero: è arrivata la VR
Era verosimilmente solo questione di tempo: la Virtual Reality si è presa la scena. Di conseguenza siamo già al punto in cui cercare di definire se si stia vivendo attraverso di essa un’esperienza teatrale o cinematografica non sembrerebbe avere molto senso. Può avere senso, invece, rintracciare all’interno di questa nuova forma artistica quei rimasugli e quegli strascichi che dal teatro e dal cinema traggono palesemente ispirazione e stile, nelle forme e nei contenuti, attraverso specifiche opere che, in una fase che potremmo ancora definire sperimentale, diventano emblemi e punti di riferimento per il solo fatto di esistere esplorando per primi questa particolare e nuova ibridazione artistica.
Un esempio italiano recentissimo e tra i più interessanti in questo senso è la prova da regista e attore che ha visto Elio Germano cimentarsi nell’adattamento di un testo pirandelliano tra i più noti: Così è (se vi pare), particolarmente versatile sia per il discorso drammaturgico che per quello mediale, volendo l’artista romano portare avanti entrambe le riflessioni volutamente in contemporanea attraverso un’esperienza immersiva prodotta da Gold VR. Una spia che tradisce tale approccio, infatti, è già contenuta nel titolo della versione di Germano, che diventa, non a caso, Così è (se mi pare), indicazione volta ad evidenziare una soggettività ricercata in fase di fruizione ma anche un discorso registico sottotraccia che percorre l’intero allestimento.

Cerchiamo di descrivere al meglio questa particolare esperienza artistico-percettiva: indossato un visore VR e un paio di cuffie ad esso collegate, si “entra” in un ambiente tridimensionale stereoscopico, un salotto di un palazzo rinascimentale con arredamento contemporaneo, una casa che vediamo in maniera del tutto simile alla realtà in quanto riprodotta attraverso delle riprese video a 360° (non rendering virtuali, per intenderci). L’effetto è a dir poco straniante, ma la vera sorpresa percettiva avviene quando ci si rende conto, volgendo istintivamente il proprio sguardo in ogni direzione, di non essere solo una presenza “invisibile” che guarda: basta infatti dare un’occhiata verso di sé per rendersi conto di “possedere” un nuovo corpo, anch’esso ripreso come il resto della scena, affibbiatoci fin dall’inizio da una precisa scelta di regia. Il fruitore veste infatti i panni di un personaggio appositamente inventato, un vecchio zio dei padroni di casa, immobilizzato in una sedia a rotelle dagli acciacchi dell’età, dove siede immobile e da cui assiste (e noi al suo posto, nel suo corpo virtuale) alla scena che gli/ci si sviluppa davanti.
La storia è quella del testo pirandelliano, con qualche riferimento aggiunto per attualizzarla: Elio Germano tende ad evidenziare nel messaggio del drammaturgo premio Nobel il discorso sulle dicerie e i pettegolezzi, le numerose realtà contemporaneamente esistenti, attraverso un parallelismo esplicito con le fake news. È però per forza di cose il parallelismo implicito, insito nel mezzo di fruizione, che rilancia ancor di più e in maniera integrale il discorso pirandelliano: qual è la realtà, quella del mio corpo carnale seduto in una poltroncina nella platea del Teatro Franco Parenti di Milano o quella del mio corpo virtuale, seduto su di una carrozzina da dove assisto alle vicende della signora Frola e del signor Ponza, suo genero? Lo stato di paradossale compresenza e sdoppiamento si complica ulteriormente in situazioni particolari, alcune involontarie altre volute. Nel primo caso, accade per esempio che muovendo le gambe del proprio corpo carnale si urti inavvertitamente altre poltroncine avanti a sé, se non che l’effetto che ne deriva è piuttosto disturbante: non vedo il mio nuovo corpo (quello virtuale, l’unico che posso vedere e che guardo istintivamente subito dopo l’urto) muoversi, né tantomeno vedo un qualunque oggetto a una distanza ragionevole che giustifichi l’urto, ma la sensazione corporea di dolore e quella mentale di spaesamento, per forza di cose, sono reali, amplificate addirittura. Nel secondo caso, invece, durante una scena è Elio Germano in persona a spostare me, il vecchio zio, sistemando la sedia a rotelle di fronte uno specchio. Quello che accade è impressionante: sono un uomo anziano che addirittura parla, recita, muove il proprio volto (lo specchio non mente), ma i muscoli facciali e fonatori appartenenti al mio corpo carnale, gli unici dei quali ho propriocezione, non si sono mossi di un millimetro.

Per quanto entrambi gli esempi potrebbero essere analizzati da un punto di vista logistico – le poltroncine potrebbero essere più distanziate – e/o artistico – la sospensione dell’incredulità, forse, risulterebbe più forte se si lasciasse la condizione involontaria di pensare al proprio volto come punto di unione tra i due corpi, piuttosto che rischiare un distacco totale sentendosi al più “fantasmi interiori” di un corpo attore/personaggio, di per sé immobile o del tutto autonomo solo nel volto, soprattutto se, guardando verso il basso, la mia visuale risulta come provenire da una testa fluttuante sollevata rispetto ad un tronco vestito ma senza collo (un manichino volutamente privo di collo e capo, si direbbe) – così come si potrebbe criticare la scelta teatrale di recitare continuamente in favore di pubblico, guardando cioè di continuo verso lo zio in un continuo, paradossale e cinematograficamente grossolano “sguardo in camera” (cinema o teatro dunque? Esperienza “archi-schermica” e “dividuale”, per dirla con la Filosofia-schermi di Mauro Carbone), tuttavia tutti questi elementi problematici rappresentano in concreto l’interrogativo posto da Pirandello e che abbiamo provato ad attualizzare più sopra: in altre parole una simile inevitabile domanda “fisica”, “sensibile”, è verosimilmente la realizzazione materiale del messaggio finale dell’opera così come il suo autore l’aveva concepita, e come Elio Germano decide di rilanciarla. Il fatto che esista o meno una realtà assoluta è del tutto irrilevante, specialmente nell’era dei digital media. Ciò non significa però lasciare spazio al relativismo assoluto di postmoderna memoria ma al contrario, richiede una messa in discussione di se stessi e della realtà così come la percepiamo e riceviamo, dai media come dall’arte. Messa in discussione che sola potrà aprire seriamente un dibattito concreto, questo sì più che reale, che riguardi l’informazione, l’arte, la società e i rapporti digital-reali che tra questi tre poli ci pongono.
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