
Irma Vep – La seduzione degli spettri
La contingenza è stata propizia, quasi miracolosa: una produzione seriale marchiata HBO e A24 con alla guida Olivier Assayas sembra l’agognato anello mancante per riconciliare il mondo cinefilo con la dimensione (industriale, produttiva, creativa, artistica) della serialità, per (di)mostrare che il cinema può vivere anche nella portabilità di schermi non per forza da pensare come altari della laica liturgia che è la sala. Sembra, ma non è, perché la Irma Vep di Olivier Assayas (la sua seconda, più ossessiva, radicale) con il magnetico volto di Alicia Vikander è un atto di resa, un tributo impossibile, un’ambizione tradita in partenza di racchiudere gli spettri del cinema nei confini mai abbastanza vasti del formato, della struttura. Eppure, nonostante l’inesorabile e programmatica impossibilità ad esistere, Irma Vep è semplicemente il miglior prodotto seriale dell’anno, dal fascino sottile e impalpabile, seducente come gli spettri che cerca di evocare.

Non un remake, né un reboot, ma una sorta di riflessione su un passato multidimensionale che decide di accogliere pienamente il pregresso senza negarne le contraddizioni. È in quest’ottica che la serie si sviluppa su più livelli discorsivi, integrando il racconto della produzione di una serie televisiva tratta da Les Vampires di Feuillade con sequenze tratte dalla serie stessa (che noi vediamo a tratti, frammentate, strappate) e sequenze (anche se rimontate) del serial originale del 1915. Unico indice formale a denunciare i passaggi nella continuità del profilmico è il formato, che ridefinendo i confini dello schermo indica allo spettatore quale livello discorsivo è interpellato, lasciando però progressivamente che le carte dell’immaginario rappresentato si mescolino indefinibilmente: ripresa, rappresentazione e fonte originale hanno confini labili, sottili come la superficie della pellicola cinematografica, che può strapparsi, forarsi o bruciare.

In questa sua Irma Vep Assayas si muove attraverso un gioco intratestuale, dove gli interpreti – Alicia Vikander su tutti, che è sì l’attrice Mira Harberg, ma anche autenticamente sé stessa, Musidora e profondamente Irma – sono volti, corpi e voci a disposizione della rappresentazione su tutti i livelli, che non cercano la mimesi fisionomica, bensì quella profondamente erotica, gestaltica, spirituale. Il corpo di Alicia Vikander diventa quello di Musidora non solo vestendone la tuta, ma abitando il mondo del racconto e inducendo nello spettatore lo stesso sguardo che Musidora induceva con la sua presenza. Così le pareti delle stanze si fanno labili immagini di luce attraversabile, Parigi sfondo per una silhouette inafferrabile, il set santuario di ritualità arcane per evocare quello spettro del cinema che ne abita tutta la Storia. E lo spettro stesso si trasforma impossessandosi dei corpi che abitano la serie, materializzando in assenza chi il racconto (quello di Irma Vep, certo, ma anche di Les Vampires e della sua lavorazione) lo ha vissuto, restituendo un vortice creativo che è ad un tempo interiore ed esteriore rispetto ad Assayas stesso, introspezione e proiezione con al confine il profilmico, l’immagine, il supporto.

Lungo i suoi otto episodi Irma Vep intreccia racconti tutti mancati, interrotti, impossibili, restituendo con i titoli – tratti dagli originali del serial di Feuillade – una sfaccettata possibilità di chiavi di lettura a seconda del piano discorsivo con cui entrano in risonanza. I titoli non riguardano solo gli episodi girati di volta in volta – sempre incompleti – o quelli che ne fanno da fonte – anch’essi riadattati, tagliati e diversamente ritmati – ma anche le singole vicende nella realizzazione stessa della serie, in una costante incertezza della verosimiglianza del mostrato. Non basta il cambio di formato per garantire la differente densità discorsiva, poiché ogni evento è mostrato in controluce attraverso la natura stessa dell’immagine cinematografica, che migra dal reale al rappresentato come può migrare da uno schermo all’altro dei dispositivi di visione: quando il regista René (un fenomenale Vincent Macaigne) mostra a Mira le immagini di Feuillade – per lui massimo e inarrivabile esempio di cinema – lo fa attraverso un cellulare, in portabilità, su un piccolo schermo.

Assayas mette in forma, con questa sua seconda e necessariamente radicale rappresentazione di Irma Vep, un rituale impossibile di evocazione degli spettri che popolano il cinema, che prescindono i luoghi dove questo abita, che si nutrono del suo farsi e che si impossessano dei corpi luminosi di cui è foriero: Alicia Vikander in tutto questo è medium e testimone ultimo dell’efficacia del rituale filmico, punto di contatto tra tutti i mondi – diegetici e non – che il cinema pervade nel suo farsi, nel suo frammentarsi e nel suo dissolversi attraverso la stessa proiezione. Irma Vep è a un tempo oggetto teorico profondissimo e racconto seriale facilmente accessibile, capace di integrare linguaggi, immaginari e riferimenti senza la necessità di alcun didascalismo.
C’è tutto il possibile del cinema in Irma Vep, prodotto che si dà come seriale per reintegrare quella natura fortemente industriale del cinema delle origini (Les Vampires era un serial, dopotutto), con un catalogo di personaggi che rappresenta e mette in mostra – anche in modo estremo, caricaturale – le diverse facce della moltitudine del fare, vivere e pensare il “filmico” come ambito e ambiente. Irma Vep è una storia di fantasmi impossibile, un’illusione di racconto che è più racconti sovrapposti nella trasparenza del loro essere immagine filmica, un gioco narrativo fine a sé stesso come d’altronde è, in definitiva, ogni forma rituale.
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