
Il fantasma e tutto il resto. Sulla quarta stagione di Boris
L’ipotiposi è una fantasia
Fantasia e fantasma condividono la radice. Verrebbero da ϕαίνω, mostrare, il cui medio-passivo è apparire: la fantasia mostra, il fantasma appare. Fantasia e fantasma concorrono allo stesso significato, se vogliamo, sono due facce della stessa medaglia. Penso a Roland Barthes che parla di fantasma in relazione alla figura retorica dell’ipotiposi. Ne parla se non ricordo male in Sur Racine, un saggio “minore”, per quei personaggi tragici (freudianamente analizzati) costantemente nella libido, quindi costantemente mossi dalla pulsione di morte. Un altro esempio: cosa muova l’Amleto di Shakespeare, se non questa sovrapposizione tra libido e fantasma. Comunque, in L’ipotiposi e la retorica. Il far vedere e l’effetto di presenza (pubblicato su Lexia – Rivista di Semiotica), Alessandro Prato attraversa tutte le definizioni (e dunque le concezioni) dell’ipotiposi. Per Quintiliano, nell’Institutio Oratoria, è una:
“viva rappresentazione sotto gli occhi” [che] suole aver luogo allorquando non si espone il fatto avvenuto, ma si mostra come è avvenuto, e considerato non tutto complessivamente, ma nelle sue parti: questo argomento è allegato all’evidenza. Altri la chiamano ipotiposi e la definiscono “un modo tale di rappresentare le cose con le parole, da farle sembrare piú vedute che udite” [ibid.] Né soltanto immaginiamo quel che è avvenuto o avviene ma anche quel che sarà o sarà stato. Questa trasposizione dei tempi che propriamente è chiamata stasis, è quella stessa figura dell’ipotiposi.
Può essere detta anche evidentia o demonstratio, nella Rethorica ad Herennium by Cicerone, cioè: far vedere. A cosa vi fa pensare? Al fatto che, in un meccanismo in qualche modo inverso, secondo me, all’ecfrasi (che è una traduzione intersemiotica, qui uno spin-off sul concetto), l’ipotiposi immagini il testo. Cioè faccia vedere delle parole. Prato continua la sua rassegna con dei pensatori francesi e in particolare Fontarier:
L’ipotiposi dipinge le cose in modo così vivido ed energico da metterle, per così dire, davanti agli occhi, trasformando una storia o una descrizione in un quadro, in un dipinto o addirittura in una scena vivente.
Una scena vivente. Ci stiamo arrivando: Barthes, in un pezzo di genio qual è La retorica antica (che è un finto manualetto), riconduce l’ipotiposi alla più generica descriptio, che è “una sequenza fluttuante di stasi”, in sostanza una pellicola. Ecco, se il senso dell’ipotiposi è (ancora Prato) “far rivivere gli oggetti rappresentati in un’ideale contemporaneità, in modo che realtà lontane nello spazio e nel tempo possano risultare attuali”, allora chiude abbastanza bene la sceneggiatura. È un long shot, me ne rendo conto, ma assennato se si vuole portare alla luce il legame privato, profondo, tra sceneggiatura e fantasma, ovvero ciò che è ciò che sta alla base di Boris.
Metadiscorso come spostamento
È ancora Boris, sia chiaro, praticamente una serie su come si facciano le serie. Dopo tre stagioni tutto sommato autoconclusive (ormai classiche) e un film per fortuna rimosso dall’immaginario collettivo, la fuoriserie italiana è tornata su Disney+ con una quarta stagione. Al posto dei giochi partitici squisitamente italiani delle televisione pubblica subentra la Piattaforma (Disney in sostanza) e la sua necessità di assecondare il buonismo di mercato. Al posto di Gli occhi del cuore, La vita di Gesù. Le linee narrative che andavano riaperte sono state riaperte, i fallimenti che andavano raccontati raccontati, i successi pure: la telenovela tra René e il suo capolavoro; il complesso di Dio di Stanis; la maturità di Corinna eccetera (dico tutti quei personaggi rientrati per avere una chiusura, didatticamente). E sono stati introdotti personaggi che potessero rinnovare o fingere di rinnovare un prodotto a rischio di (eterna) ripetizione, come è giusto che sia: Tatti Barletta che interpreta sé stesso e che si scopre; i nuovi stagisti; la ‘Ndrangheta che riciclerebbe denaro con le produzioni audiovisive (ma che, dico, nel paese reale impesta ben altro: dai progetti di rimboschimento alle infrastrutture pubbliche, passando per i fondi del PNRR e fino alla gestione dei patrimoni UNESCO al turismo sostenibile); il personaggio di Angelo (interpretato da Alessio Praticò), vera “comparsa” comica (io, da reggino, l’ho trovato eccezionale. Che ci crediate o meno, è proprio con questo acufene ironico che le persone di Reggio Calabria parlano e si comportano. Un filtro che rende i gesti e le parole sempre al secondo grado).
Discorso a parte secondo me per il personaggio di Alessandro, che ha fatto carriera proprio come il prodotto in cui recita: la messa in abisso, cioè questo continuo rimpolpare il metadiscorso, la serie su come si fa una serie che espone addirittura la produzione e i suoi meccanismi perversi, rientrano nel genere della satira per ingratitudine: è stranoto come Boris sia stata salvata prima dallo streaming illegale, poi da Netflix e infine proprio da Disney.
Il metadiscorso è una pelle o più, una non-pelle, una generica epidermide (la negazione come affermazione sta alla base della pulsione di morte e della libido, per Freud – ne fa una bella sintesi, in relazione all’arte working class, in Melanconia di classe Cynthia Cruz), un velo (che, nel fantasma, tanto copre quanto rivela, è un travestimento). L’ultimo “stadio” del metadiscorso in Boris è l’interdiscorso, cioè il continuo rimando ad altro: gli archetipi sono evidenti (per esempio Scrubs), gli omaggi pacifici (anche come “grimaldello”; parlo della scatola blu di Mulholland Drive ma con significato diverso, che è proprio l’inscatolamento, il meta al secondo grado), le citazioni continue (o intrusioni, come Sorrentino). Il metadiscorso è tutto, coincide con Boris, ma non è il punto. Il punto è il fantasma.
Quando si prova dolore ci si abbandona alla fantasia. È in parole poverissime il meccanismo di tante nevrosi, tante psicosi. Nella prima puntata, quando il motore della trama si riavvia con tutti i rituali propperiani, viene tematizzato il fantasma, in un’ottica satirica: la Piattaforma, e un personificabile Algoritmo, non può approvare La vita di Gesù (scelta per paradigma) senza il fantasma, cioè il trauma giovanile. Gli sceneggiatori-personaggi saranno perseguitati dalla storia teen (chiameranno così il problema del fantasma, in un modo o nell’altro) come da un fantasma e ne usciranno solo grazie a un fantasma reale. Tornando indietro, alla fine della prima puntata vediamo che uno degli sceneggiatori, quello interpretato da Valerio Aprea, è un’allucinazione: l’inferno è pieno di quarte stagioni.

Una serie sul fantasma, cioè sul lutto
Capiamo molte cose, allora. Che il metaset si ipertrofizza (si stratifica) perché in atto c’è uno uno spostamento (consapevole, poetico): Mattia Torre è morto nella vita vera, il 19 luglio 2019, dopo una lunga malattia. Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, co-sceneggiatori con Mattia Torre di Boris, scrivono la nuova stagione perché il meccanismo retorico dell’ipotiposi permette loro di far vedere ancora, di mettere in scena il fantasma. L’elaborazione artistica di un lutto.
Penso ci sia una ragione se questi ultimi otto episodi, allora, appaiono come un ricordo dei precedenti quarantadue. Proprio come la memoria è episodica ed è frammentaria e priva di continuità, via via che passa il tempo. I personaggi sono tutti “perseguitati” (sempre, per forza, in un metacircolo) e alcuni di loro non vogliono vedere: Duccio è contento così, la cataratta chiude tutto quando ci sarebbe bisogno di aprire. Il calcolo è consapevole (sì, come quello a mente di Corinna). La serie si trasforma da antologica ad hauntologica (mi perdonino i fisheriani), cioè su una persecuzione, un’ossessione. Boris è infestata dal suo stesso creatore e risorge grazie a lui (mi è venuta facile questa).
Non c’è fare per uno sceneggiatore: odimo vuol proprio riassumere questo. La prassi del dolore è troppa, meglio raccontarla, anzi: meglio farla raccontare.
Nell’ultimo episodio, René Ferretti viene stanato e portato a giudizio dalla Piattaforma. Ha provato a fare il capolavoro rubando materiale dal set e montando Io Giuda, con protagonista Tatti Barletta, un biopic sulla figura colpevole e piena d’amore del traditore per eccellenza (un’interpretazione biblica già di Jorge Luis Borges, ne scrissi su lay0ut qui). Giunto a Londra con l’avvocato, intento a patteggiare, René sceglie invece di tentare l’impossibile: un’orazione che ribalti il finale, uguale a tantissimi discorsi già avvenuti nella storia del cinema e della televisione. Ma ricordatevi la retorica, lo spostamento: l’orazione viene raccontata con un ballo (sarà anche un’idea venuta dall’imprecazione dylandoghiana Giuda Ballerino?). René fa una performance sulle note di What a Feeling, in una citazione esatta di Flashdance, film di Adrian Lyne del 1983, diventato celebre e omaggiato continuamente, persino in ambito pubblicitario (chi ricorda è dannato). Ed è più che abbastanza. Il rituale li convince, Io Giuda sarà un successo di critica, un film d’autore. L’inquadratura di Giuda da bambino che lancia sassi funge soprattutto da intensificatore nostalgico. Una voiceover dice: “Quando ero piccolo volevo cambiare il mondo. E purtroppo l’ho cambiato”, che quasi in coblas capfinidas porta alla slide successiva, appiccicata come in un filmino di compleanno:
A noi, il mondo, l’hai cambiato. Manchi collega, sempre di più.
Il fantasma è addomesticato. Il tradimento (la morte) ha detto la propria funzione.
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[…] il punto è che immaginare una presenza laddove non c’è è proprio fare fantasmatica (in un pezzo su Boris, serie prima FOX poi Disney, parlavo della figura retorica del fantasma, l’ipotiposi). Nel caso […]