
«Se sapessi da dove nascono i miei romanzi smetterei di scrivere» – Intervista a Giordano Meacci su “Cittadino Cane”

Tra i più talentuosi e poliedrici scrittori della sua generazione, a sei anni dal folgorante Il cinghiale che uccise Liberty Valance, finalista al Premio Strega, Giordano Meacci ritorna al romanzo con Cittadino Cane.
Il libro – una parabola su un futuro fin troppo presente – inaugura la collana “L’invisibile” della casa editrice Industria&Letteratura. Noi lo abbiamo intervistato a margine della giornata di apertura della XXXIV edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino.
Cittadino Cane. Dopo Il Cinghiale che uccise Liberty Valance un altro importante riferimento cinematografico. Come nascono i tuoi romanzi?
Partiamo da un fatto. (O almeno: quello che io credo sia un fatto). Se sapessi realmente da dove e come nascono i miei romanzi – ma anche i racconti, le digressioni di lettura, le sceneggiature che scrivo con Francesca Serafini – smetterei di scrivere.
Perché si perderebbe da sùbito quella sensazione sospesa e interrogativa che mi travàlica, sempre, quando mi metto a scrivere. Certo: poi posso giocare con la lettera; trovare la certezza a posteriori delle metafore che ho visto dopo la scrittura. Posso ingigantire il dato evidente della citazione, innamorarmi del rimando narrativo (il John Ford del Cinghiale, il Welles di Cittadino Cane). Ma alla fine, se devo essere sincero – che è la premessa più falsa e insieme onesta, per chi scrive: almeno per me – la risata che mi sale dalle parti più segrete del cuore quando mi accorgo di non sapere nulla della nascita delle mie pagine: ecco: quello è uno dei motivi per cui mi lascio possedere dalle parole provando a gestirle.
Perché il come cui sono dedito riguarda proprio la natura profonda dell’avverbio. La forma in cui le parole si avvolgono e svolgono sulla carta; l’unico come di cui posso realmente dare conto con consapevolezza.
Nelle Fondamenta degli incurabili Brodskij scrive: “L’occhio è sempre in cerca di sicurezza. […] Un sogno è la fedeltà dell’occhio chiuso”. In Quarto Potere la profondità di campo era una forma simbolica, il desiderio del protagonista di dominare la realtà circostante. Il tuo Cittadino Cane cosa desidera?
Citi Brodskij; che è una delle strade che percorro sempre in silenzio e pieno di stupore per smarrìrmici dentro: una delle selve intricatamente radiose per cui vale la pena perdersi per quel che si può.
Ci sono due versi bellissimi e paradossali, di Brodskij (in A song, una poesia scritta direttamente in inglese, una lingua altra che segna anche la sua meravigliosa e però spesso tristissima vita nomade): «What’s the point of forgetting / if it’s followed by dying?». In sostanza – usando le parole italiane di Matteo Campagnoli – «Che senso ha dimenticare, / se poi alla fine si muore?»
Paradossali perché apparentemente l’ipotesi e la tesi si spiàzzano tra loro; quando invece è negl’interstizi ellittici che i due versi spalàncano che s’intuisce una parvenza di verità poetica.
Meglio ricordare, per quel che si può, appunto; anche il dolore, i dardi dell’avversa fortuna, l’esilio, la mancanza.
Attraverso l’amato Brodskij sono tornato a spiegarmi Carlo Cane, il protagonista effettivo del libro. A pochi momenti dalla sua morte si trova a ricordare: ma tutto si muove per frammenti, per cose scomparse di lì a poco che non si troveranno – eliotianamente – nel suo necrologio.
Cosa desidera, in quei momenti, il Cittadino Cane? Forse la vita, in sé, qualunque sia stata. Come il Rutger Hauer di Blade Runner. Forse semplicemente un esercizio di memoria che lo tenga vivo dopo di lui ― con il paradosso che il libro: e quindi le sue storie: sono costruite anche attraverso l’apporto di voci che non sono le sue.
Non saprei dirlo, con certezza. Da poeta a poeta, come si dice, mi vengono in mente altri versi. Che Attilio Bertolucci ha dedicato a Pier Paolo Pasolini. «Soltanto ci sia dato, in un tempo incerto / di trapasso, ricordare, ricordare per noi // e per tutti, la pazienza degli anni / che i lampi dell’amore ferirono – e si spensero».
Hai esordito con un libro su Pasolini durante il suo periodo da insegnante a Ciampino. Leggendo Cittadino Cane, vuoi per il nome del protagonista, per la sua biografia frammentaria o per il suo rapporto con la figura del padre, non ho potuto fare a meno di pensare ai Carlo protagonisti di Petrolio di Pasolini. Nel centenario della sua nascita, Pasolini ci parla ancora? In che modo?
Proprio per la congruenza iniziale con la struttura di Citizen Kane e tutti i riferimenti al film (struttura che ho voluto prima triturare e rileggere, etimologicamente; poi riscrivere attraverso i modi tecnici di un altro universo di scrittura, appunto): Carlo Cane viene direttamente da Charles Foster Kane, il protagonista di Quarto Potere (che è poi l’italianizzazione forzata e divagante del titolo originale). Mi sembrava eccessivo Carlo Fosteri Cane; soprattutto: non mi suonava bene come il solo sintagma che poi è sopravvissuto: Carlo Cane, appunto.
Però.
Petrolio di Pasolini è un romanzo fondamentale. Una summa di romanzi, in realtà, che si formano in uno. E con Pasolini ho una frequentazione quotidiana attraverso la sua opera, costantemente. Quindi: sì. In quel Carlo di Carlo Cane c’è probabilmente anche un retaggio dei Carlo di Petrolio.
E questo in qualche modo risponde alla tua domanda. Pasolini ci parla ancora; ci parla sempre: attraverso le sue pagine, i suoi versi, i suoi film, le sue illuminazioni corsare.

Per il protagonista di Quarto Potere lo slittino Rosabella era l’origine e la fine di tutto, il senso di una vita intera. Carlo Cane ha una sua Rosabella?
Probabilmente ne ha molte. Come tutte e tutti noi, credo. Forse come lo stesso Charles Foster Kane, chissà. Ricordiamoci che il vecchio Kane, morente, abbandona questa vita mormorando un nome: una cosa tra le altre. Però. Il genio di Welles e di Mankiewicz fondano, sì, tutto su una complicità intelligente con lo spettatore; ma anche sulla consapevolezza dell’impossibilità di racchiudere la vita di un uomo in un solo sortilegio (o esorcismo); pur sapendo che alla fine siamo una cosa sola con quello che crediamo (o abbiamo creduto) di desiderare; e di rimpiangere.
Se ci penso adesso, alla fine della scrittura, è come se Carlo Cane – ogni momento della sua vita, a ogni successo illusorio; in tutte le sue cadute più o meno meschine, o grottesche – rincorresse costantemente una serie di sue privatissime rosebud di cui però non ha una coscienza chiara.
Quasi si rendesse conto, alla fine, di non aver mai capito cosa desiderare; sommando quindi la mancanza di un qualche graal cercato veramente all’inconsistenza di non sapere cos’è il graal. Quantomeno: quale avrebbe dovuto essere il suo. Però queste, naturalmente, sono divagazioni.
Che rapporto c’è tra il Meacci scrittore di romanzi e l’audiovisivo? Il cinema è una bussola per la letteratura contemporanea?
La Vita così come la vivo e la vedo; la Letteratura, il Cinema: per me sono tutte pagine di libri che mi piace leggere quotidianamente. Non c’è una gerarchia, quando attingo ai ricordi o ai pensieri digressivi che mi assalgono per scriverne. Mi ricordo di Scola, in C’eravamo tanto amati. Quando fa dire a Stefania Sandrelli: «Avevamo molti progetti… Sposarci; comprarci una lambretta, avere dei bambini: ma non necessariamente in quest’ordine».
Ecco. «Non necessariamente in quest’ordine» è per me una sorta di mònito estetico che, di volta in volta, scompàgino.
Guardi serie tv? Che rapporto hai con la scrittura seriale e che cosa può offrire rispetto alle altre forme di scrittura?
La risposta a questa domanda è legata a filo doppio con la risposta precedente. La serialità mi affascina e mi convince (mi conquista, in sostanza, come lettore) quando si tratta di un’opera d’arte che mi trova sorpreso, spiazzato, commosso, divertito, rincuorato, disperato, radioso: e tutti gli aggettivi che corredano le emozioni che solo a malapena li descrivono.
Di là dalle diverse tecniche (perché insieme con l’intensità e il rigore che ci vogliono per scrivere un romanzo, o un film: cambiano le tecniche e quindi i modi della scrittura): credo che ogni forma d’arte abbia il dovere di cercare la Bellezza per quello che può. Approssimativamente (perché descrivere l’amore verso cui tendiamo è sempre manchevole; e sfuggente): la Bellezza è, per l’appunto, una congerie di aggettivi: e quelli citati dianzi sono solo una parte infinitesima di quelli che servono.
Da serie a serie; da serialità a serialità: Salgari e Dickens, Lucas e King, Vonnegut e Highsmith, Overman e Pizzolatto. Più ci penso più mi dico che la questione è sempre il come. E l’immaginario che questo procura e comporta.
“Un genio non è mai tale per i suoi contemporanei” citi in esergo. Che cos’è per te il genio?
Una frase che dico spesso è “il genio è preterintenzionale”. E mi ha sempre persuaso la suggestione di Carmelo Bene sul talento che fa quello che deve e il genio che fa quello che può.
L’epigrafe di cui parli è tratta da un romanzo meraviglioso, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon: in cui, tra le infinite cose che regala, c’è anche un racconto di Orson Welles ritratto nella sua nebbia di mago e nella quotidianità – riscritta – delle sue fragilità e ossessioni.
La preterintenzionalità penso consista in questo: inciampare nell’immortalità attraverso le cose che fai: perché non puoi non farle che così. Di là da te.
In più, come c’è capitato di pensare e scrivere con Francesca Serafini a proposito di due genî veri (Fabrizio De André e Paolo Villaggio): «per riconoscere un genio ce ne vuole un altro».
Perché – anche qui ripeto una delle mie ossessioni per metafora – è vero che non c’è Moby Dick se nessuno lo scrive; ma è anche vero che non c’è Moby Dick se nessuno lo legge.
Tornando al Cinghiale che uccise Liberty Valance. Nel romanzo adottavi il punto di vista di un cinghiale. Ne I miei stupidi intenti, il sorprendente esordio letterario di Bernardo Zannoni, a raccontare è una faina. Un narratore animale raggiunge uno speciale livello di realtà? Cosa scopriamo su noi stessi quando ci osserviamo con occhi non umani?
Osservarci con occhi non umani è possibile solo fingendo. Proprio perché siamo sempre umani anche – giocando su un antico ritornello – quando danziamo intorno e oltre la nostra stessa umanità.
Da sempre, il tentativo di immaginarsi una vita animale di finzione (ché agli animali siamo legati da una consanguineità prossima e biologicamente evidente): è servito a illuminare per sottrazione e aggiunte – da Fedro a Trilussa, dal Roman de Renart a Disney – i nostri difetti e gli slanci che ci tengono vivi; i sogni azzardati e le nostre pochezze giornaliere. Così da specchiarci in una serie di figure che ci dessero costantemente prova della nostra esistenza in vita. Animali antropomorfi, in sostanza.
Quando ho scritto Il Cinghiale – fin dall’inizio: già da quando era abbozzo di racconto e prime pagine – mi sono detto che non volevo che Apperbohr – il nome del Cinghiale – perdesse mai la sua natura animale. Anzi: volevo che, pur trovandosi nella condizione straniante di capire (da un momento preciso del tempo in poi: e senza che si sappia mai davvero il perché) la lingua degli uomini (“Gli Alti sulle Zampe”, li pensa lui) ― ecco: volevo che, pur diviso e lacerato tra una comunità di cinghiali in cui non si riconosce più e una diversa comprensione degli esseri umani che però non potrà mai essere sanata in condivisione: Apperbohr rimanesse un cinghiale.
Questo, sì: mi è servito per focalizzare meglio le scoperte che Apperbohr e io cercavamo di gestire insieme sulla pagina: tutte le vite segrete degli abitanti di Corsignano (e dei boschi che circondano questo paese toscano inventato dal vero) raccontate attraverso gli occhi di un animale che, improvvisamente, crede di avere intuito qualcosa.
E anche ora che dopo anni provo a ritornare su quelle pagine: mi dico che “un animale che improvvisamente crede di aver intuito qualcosa” potrebbe essere una perfetta definizione di tutti noi esseri umani. Appunto.

Sono passati sette anni dall’uscita di Non essere cattivo di Claudio Caligari, alla cui sceneggiatura avevi collaborato. A posteriori, quanto pensi che abbia inciso sulla rappresentazione cinematografica di un certo tipo di periferia?
Il cinema di Claudio Caligari è un cinema unico nel suo genere. Come si dice di solito dei grandi autori. E Caligari è per l’appunto questo: un grande autore e un maestro di stile.
Le sue periferie sono eterne a tutte le latitudini perché partendo da una convinzione di fondo – il cinema è finzione – raccontano un mondo recintato illuminando, senza giudicare, le persone che quel mondo abitano; e vivono.
E lo raccontano (questa “la bellezza del rigore e il rigore della bellezza” di Caligari: come mi piace sempre ricordare) attingendo a un modo privatissimo e segreto fatto dei fotogrammi di Scorsese e dei versi di Pasolini, dei chiaroscuri di Visconti e del bianco e nero di certa Nouvelle Vague; ma anche di Beckett e di Lowry, di Welles e di Huston: il tutto riscritto secondo una visione personalissima che, appunto, mi fa dire che prima che Caligari le vedesse in quel modo: le periferie che descrive non esistevano in quel modo.
Un làscito che di solito riguarda gli inventori (in senso etimologico): e qui mi affido sùbito a un mondo letterario e cinematografico che mi è caro per maggiore chiarezza. Se penso al racconto di Pasolini del mondo sottoproletario degli anni Cinquanta, alla piccola borghesia descritta da Vincenzo Cerami, alle periferie tossiche e recluse di Caligari: ogni volta mi dico che si tratta di fondazioni di grammatiche che hanno condizionato, ogni volta, la percezione e la rappresentazione dopo di loro.
Nel futuro descritto nel romanzo, Berlusconi è Presidente della Repubblica e al governo si alternano politici sovranisti. Alla luce dei recenti avvenimenti, cosa dobbiamo aspettarci? Il futuro è necessariamente una distopia del presente?
Posso solo arrogarmi un qualche distorto diritto di parlare a nome del presente. E immagino la sua voce interrogativa che dice: «Non lo so. Invento quello che c’è».
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] collana “di narrativa breve (ma non troppo)” – il suo racconto La casa in fiamme. Dopo Giordano Meacci, che aveva inaugurato l’invisibile con il suo Cittadino Cane, abbiamo intervistato anche […]