
Ragazze vincenti – La serie | Complessa pluralità di un reboot vincente
«Fred Astaire was great, but don’t forget that Ginger Rogers did everything he did, backwards and in high heels.» recita una famosa citazione apparsa nel 1982 sulla striscia comica Frank and Ernest, che illustra a suo modo ciò che viene sperimentato anche dalle protagoniste di Ragazze vincenti – La serie (A league of their own), il nuovo show co-creato da Will Graham e Abbi Jacobson – anche protagonista della serie – disponibile su Prime Video.
Il loro sogno di entrare nella All-American Girls Professional Baseball League (1943-1954), la prima lega femminile di baseball professionistico statunitense, prevede infatti un costo maggiore rispetto a quello richiesto alla loro controparte maschile: al fine di garantire che i canoni di bellezza e comportamento imposti dalla società continuino ad essere rispettati, le donne potranno praticare lo sport a livello professionistico solo a patto che si trucchino, indossino delle minuscole quanto scomode uniformi e siano sempre educate e sorridenti. D’altronde, però, per le componenti delle Rockford Peaches e per le altre squadre della lega, anche la posta in gioco è irrimediabilmente più alta: non si tratta solamente di segnare più punti o vincere una partita ma di provare a rinegoziare le regole che disciplinano il gioco sociale in modo da allentare quella soffocante oppressione a cui il mondo sembra averle condannate.

Il sessismo e la disparità di trattamento riservata alle giocatrici così come il loro tenace desiderio di rivalsa erano già stati affrontati egregiamente nell’omonimo film diretto da Penny Marshall a cui la serie si ispira ma, trenta anni dopo, Graham e Jacobson con il loro reboot decidono di conferire finalmente il giusto peso ad altri fondamentali sottotesti solo accennati nel cult del 1992. Ponendo al centro queerness e questione razziale, Ragazze vincenti – La serie si apre infatti all’intersezionalità e riesce, attraverso nuovi personaggi e vicende, a catturare lo spirito del prodotto originale rendendo allo stesso tempo proprie le istanze più feconde dell’attuale panorama seriale (a questo proposito, in linea con quanto adottato da altre serie contemporanee come Our Flag Means Death, si rivela ancora una volta fondamentale il coinvolgimento – nella writers’ room come nel cast – di persone queer e BIPOC per raccontare in maniera autentica le proprie storie).

La cornice storico-culturale rimane la stessa: è il 1943 e il Secondo Conflitto Mondiale con la sua inesauribile richiesta di uomini al fronte sta mettendo in difficoltà le squadre di baseball statunitensi. Per salvaguardare una distrazione necessaria in un momento storico quanto mai delicato, si decide perciò di optare per la creazione di una lega tutta al femminile, reclutando giocatrici provenienti da Stati Uniti, Canada e alcuni Paesi dell’America del Sud. È proprio per raggiungere le selezioni di questa lega che, all’inizio della serie, la casalinga dell’Idaho Carson Shaw (Abbi Jacobson) si sta affrettando a prendere un treno che la porti a Chicago.
A differenza del film non ci sarà nessuna rassicurante figura quasi paterna ad aspettarla per accompagnarla allo stadio una volta arrivata, ma l’inseparabile duo di amiche newyorchesi, anch’esse aspiranti giocatrici, composto da Greta (la straordinaria D’Arcy Carden, indimenticabile Janet di The Good Place) e Jo (Melanie Field). Ai provini cercherà invano di partecipare anche Maxine Chapman (Chanté Adams), una talentuosa giocatrice afroamericana – accompagnata dalla sua migliore amica Clance, interpretata dalla spassosa Gbemisola Ikumelo – rifiutata da subito a causa del colore della sua pelle.
Giocando tra familiarità e cambiamento, nel corso dei suoi 8 episodi lo show deciderà di articolarsi quindi in due storyline parallele ma complementari, alternando alle vicende personali e professionali delle componenti della squadra delle Rockford Peaches – in cui Carson, Greta e Jo sono riuscite ad entrare insieme ad altri interessantissimi personaggi – la disperata ricerca da parte di Max di trovare, oltre che sé stessa, un team disposto ad accoglierla.

Ragazze vincenti – La serie possiede una profonda comprensione del prodotto originale dal quale proviene, che non manca di onorare più volte riprendendone sequenze e archetipi: l’amicizia condivisa tra Greta e Jo, ad esempio, è un chiaro omaggio alla dinamica esistente tra Mae e Doris, i personaggi intrepretati nel film rispettivamente da Madonna e Rosie O’Donnell (quest’ultima tra l’altro fa un breve quanto significativo cameo all’interno della serie). È solo però senza la presenza, forse un po’ ingombrante, di Dottie (Geena Davis) e del coach Dugan (Tom Hanks) che il reboot può aprirsi ad un’inedita quanto necessaria coralità. Ne deriva l’attenta costruzione di un ventaglio di personaggi femminili diversi e per questo motivo complessi e affascinanti (Shirley, interpretata da Kate Berlant, e Greta ne sono l’esempio più eclatante, con la loro capacità di dominare ogni scena in cui fanno ingresso) così come lo sviluppo di appassionanti dinamiche relazionali (si pensi al rapporto romantico tra Greta e Carson o all’amicizia tra Max e Clance).

Come ogni prodotto audiovisivo sullo sport che si rispetti, A league of their own non manca poi di permeare ogni scena con l’indubitabile insegnamento dell’importanza per una squadra di superare differenze, incomprensioni o personalismi a favore della collaborazione e del sostegno reciproco. È solo attraverso l’inedito punto di vista femminile fornito dallo show, però, che questa lezione può acquisire un significato ancora più assoluto, volto a celebrare la sorellanza e l’amore femminile in tutte le sue forme e a ricordare, al pubblico come alle protagoniste, quanto la ricerca dell’individualità della propria voce ha bisogno inevitabilmente del supporto altrui.
Spiritosa, commovente e sentita, Ragazze Vincenti – La serie, grazie ad un’accurata rappresentazione e messa in scena di un ampio spettro di emozioni e relazioni umane, finisce per dimostrare che, al contrario di quanto sostenuto nell’immortale frase pronunciata dal coach Dugan nel film cult, non è poi così vero che «There’s no crying in baseball»: di fronte alle leggendarie imprese di queste giocatrici, nello sport come nel privato, sarà impossibile non concedersi qualche lacrima.
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