
Porco Rosso – Metafisica del volo nello Studio Ghibli
All’interno dello sfaccettato contesto dell’animazione nipponica, che solo in tempi recenti è riuscita a superare il vaglio occidentale dell’ammissibilità artistica, è ormai considerata come un artefatto di comune conoscenza la storia della scelta del nome dello Studio Ghibli – fondato da Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Per chi non ne fosse al corrente basteranno poche righe di spiegazione: nel momento in cui Miyazaki e Takahata – suo mentore e amico, nonché autore di film d’animazione di spessore, come La tomba delle lucciole (1988) – avevano deciso di allontanarsi dagli studi d’animazione per i quali avevano lavorato fino a quel momento, s’era imposta la necessità di individuare un nome che potesse riflettere aprioristicamente lo spirito di cui la nuova casa di produzione avrebbe dovuto essere infusa. La scelta sarebbe poi caduta, come è più che noto, sul termine “Ghibli” – che non proveniva dall’ambiente giapponese, bensì dal nome di uno specifico modello d’aereo in voga negli anni Trenta nell’Aeronautica Militare Italiana. Miyazaki, d’altronde, era sempre stato un appassionato di velivoli da guerra a causa della professione del padre, comproprietario di una fabbrica di parti per aerei: tralasciando la componente intrinsecamente bellica degli aerei militari, rigettata con evidenza nei successivi lavori d’animazione in nome di un ostentato pacifismo, quale migliore metafora poteva simboleggiare con lo stesso fascino il concetto di libertà universale e liberazione dalla gravità?

Per questi e altri motivi non sorprende la centralità che il tema del volo e delle macchine volanti ha occupato nel cinema di Miyazaki, diventandone perno artistico e metonimia d’intenti. La città volante di Laputa (1986), il dispositivo Mehve di Nausicaä della Valle del vento (1984), la scopa volante di Kiki – Consegne a domicilio (1989), la forma uccello-draconica di Howl de Il castello errante di Howl (2004), o ancora l’intero progetto del film d’animazione Si alza il vento (2013), dedicato alla memoria dell’ingegnere aeronautico Horikoshi e all’istrionica figura di Giovan Battista Caproni (inventore del bimotore Ca.309 “Ghibli”) – è un continuo florilegio di eliche e metalli dolci, liquidi, pronti a cambiare forma e funzionalità di pellicola in pellicola. Fra queste, ad avvicinarsi con maggior aderenza alla visione nostalgica dell’oggetto «macchina-volante» come strumento di ribellione antigravitazionale, è sicuramente Porco Rosso (1992): oggi, in occasione dei trent’anni dalla sua uscita in sala, ne ripercorriamo le tappe produttive e gli elementi di rilievo grafico e contenutistico.
Spazio e tempo: coordinate del volo
«Questo film narra la storia di un maiale, soprannominato Porco Rosso, che si batte contro i pirati del cielo a rischio del suo onore, della sua donna e dei suoi beni, ambientata nel Mar Mediterraneo all’epoca degli idrovolanti». In apertura di film, il ticchettìo di una macchina da scrivere accompagna la comparsa a stantuffo della precedente frase, che miniaturizza in pochi caratteri l’intera trama. Questa didascalia d’esordio non si allontana molto dalla descrizione del progetto iniziale che Miyazaki aveva avuto modo di anticipare, quattro anni prima, in occasione del Nagoya Film Festival del 1988; prima che Porco Rosso arrivasse sugli schermi, le vicende del maiale-aviatore erano inoltre state pubblicate da Miyazaki stesso in forma di manga a episodi sulla rivista di modellini «Model Graphix» (con la quale collaborava dal 1984), attirando le attenzioni della Japan Air Lines – che avrebbe in seguito offerto il proprio sostegno economico per la realizzazione di un mediometraggio per bambini da proiettare sulle tratte degli aerei, solo successivamente tramutatosi in un lungometraggio per adulti.

Affidandosi alle proprie conoscenze da appassionato legate al mondo aeronautico internazionale, Miyazaki diede vita a una fantasmagoria (idro)volante che segnava uno stacco evidente rispetto ai precedenti film d’animazione. La prima differenza rispetto ai lavori passati – e, forse, anche la più semplice da riconoscere – consiste nella scelta di un protagonista adulto e per di più maschile, per quanto sfigurato dalla zoomorfosi suina. Marco Pagot, lone rider soprannominato dai pirati del cielo “Porco Rosso” in virtù del suo idrovolante rosso-fiamma, altera dunque le condizioni d’esistenza che avevano accompagnato fino a quel momento la produzione cinematografica del regista e animatore nipponico. A sottolineare una seconda e una terza volta il valore alieno del film, concorrono inoltre la complessa stratificazione dell’intertesto aeronautico e la precisa ambientazione storica e geografica: la maggior parte dei nomi legati a personaggi secondari italiani (e non) sono tratti da effettivi personaggi storici, perlopiù aviatori, e i materiali aneddotici disseminati di quando in quando nei momenti di stasi della narrazione risultano prevalentemente veri, storicamente fondati; allo stesso modo, rappresenta un unicum la scelta di chiarire sin dalla scena d’apertura l’anno in cui si svolgono gli eventi, per mezzo di una metadiscorsiva rivista cinematografica con la quale Marco si protegge dal sole. Così, per mezzo di un’animazione bidimensionale particolarmente elegante e adatta alle piroette metamorfiche degli aeroplani, Miyazaki concede allo spettatore l’occasione di ammirare – sia dall’alto, a bordo degli idrovolanti, che dal basso – la sua interpretazione visiva dell’Italia del Nord sul finire degli anni Venti, dal Mar Adriatico a Milano e i suoi Navigli, passando per i borghi di campagna e i faraglioni delle isole nascoste.

In virtù di questa precisa collocazione geo-diacronica, Storia e racconto s’intrecciano – modificandosi l’un l’altro, e proponendo così una visione anomala e simil-favolistica degli anni in cui il fascismo affondava le sue radici nel Bel Paese. In questa cornice assumono rilievo, di conseguenza, sia i riferimenti espliciti ai mutamenti storici (es. la conflittuale adesione di Ferrarin, amico d’infanzia di Marco, all’aeronautica fascista) sia quelli impliciti riferiti al sostrato ideologico (es. la tensione superomistica di Curtis, “antagonista” di Porco Rosso, che molto ricorda il mito di aviatori come l’americano Lindbergh o, in Italia, il fascista Balbo).
Le donne: figure femminili in Porco Rosso
Per quanto il punto di vista adulto e maschile di Marco Pagot – che ha spinto la critica a individuare, per la prima volta, un possibile sottotesto legato alle concrete pulsioni sessuali di un protagonista di Miyazaki – possa dare luogo a uno iato che distingue Porco Rosso dai precedenti film d’animazione del regista, anche in questo caso il valore attribuito ai personaggi femminili è di fondamentale importanza. Che non si tratti di una rappresentazione immobilistica del gentil sesso è evidente sin dalla prima sequenza, in cui una scolaresca di bambine viene rapita dalla banda Mamma Aiuto – dirottandone a suon di fracasso e schiamazzi il piano “malvagio”, per poi venire salvate dall’immancabile Marco Pagot. È evidente che i Mamma Aiuto non rappresentino l’emblema del pirata spietato, e che anzi ne ribaltino lo stereotipo a più riprese in chiave iperludica; ciò non toglie che l’incipit del film ci ponga già di fronte alla forza (fisica, emotiva e intellettiva) del deuxième sexe, capace di stabilire con il genere maschile relazioni che rifuggono le dinamiche di dominio. Questo carattere – che Miyazaki non accosta a un trattamento androgino del femminile; possibilità che ne avrebbe depotenziato il valore sovversivo – è particolarmente esplicitato in due figure femminili centrali ai fini della narrazione.
La prima è Gina, amica d’infanzia di Marco e proprietaria dell’Hotel Adriano, tipico luogo di ritrovo di pirati e cacciatori di taglie, che in nome del rispetto per la proprietaria (e la sua bellezza) accettano di seppellire l’ascia di guerra – almeno finché si poggia piede sull’isola, considerata territorio internazionale e interfazionale. Coetanea del Porco, Gina si inscrive nella breve lista di personaggi femminili adulti e difficili da inquadrare in strutture manichee nell’opus di Miyazaki, ponendosi così sulla stessa linea di Eboshi (La principessa Mononoke) e la regina del regno di Tolmechia (Nausicaä della Valle del vento). Si tratta di una donna emancipata e in carriera, già moglie di tre aviatori e già tre volte vedova degli stessi, che conserva però un immutabile amore per Marco – senza che questo amore in potenza condizioni la persona in sé, e mantenendo così un’autonomia di condotta che le consente di vivere nell’Hotel Adriano e di mantenere uno sguardo che è finestra sul mondo.




A questa figura adulta, matura, si potrebbe accostare per antitesi la pseudo-verginale Fio, meccanica adolescente che segue Porco Rosso nelle sue avventure. Anche in questo caso, però, si tratta di una figura femminile poco consueta rispetto allo standard miyazakiano: dopo essere entrata in scena guidando un camion a rimorchio, Fio sviluppa un rapporto con il protagonista (“maiale” tradizionalista) che è pregno della freschezza delle nuove generazioni di donne (italiane) – che sin dalla giovane età vengono così rappresentate come volitive e sentimentalmente veraci. Di questi elementi viene dato saggio soprattutto in occasione dell’imboscata dei pirati del cielo nella caletta nascosta di Porco Rosso, quando Fio s’impone fra tanti uomini – da un lato risolvendo dialetticamente la situazione; dall’altro facendoli innamorare tutti. Non bisogna dimenticare, inoltre, che essere una meccanica donna è anche al giorno d’oggi un motivo di scherno testosteronico, lo stesso che Marco le riserva quando la conosce per la prima volta: il suo progressivo rivolgimento d’idee non solo lo mette di fronte all’inadeguatezza delle proprie posizioni rispetto al sesso femminile (siamo pur sempre negli anni Venti), ma aggiunge ancora spessore al ruolo che il femminile in quanto tale assume a ridosso di eventi bellici come quello che campeggia, mai nominato, sullo sfondo della narrazione. Per questo motivo le sequenze della rimodellazione dell’idrovolante risultano doppiamente valide: l’assenza degli uomini che «sono andati tutti a lavorare all’estero» apre un varco per l’entrata nella storia di bambine, giovani donne, madri e vecchiette che si adoperano per proteggere Marco dalle spie fasciste e, soprattutto, per attuare i lavori di ristrutturazione del suo velivolo, mostrando le proprie (fin lì, inattese) capacità senza il bisogno del benestare di Marco, sul quale anzi finiscono per imporsi.

Cinema 1929: elementi di un metadiscorso
In apertura di film l’aviatore Pagot ci viene mostrato su una sedia pieghevole, con il volto suino coperto da una rivista di cinema del luglio 1929: si tratta della prima scintilla di un discorso autoriflessivo sul cinema che trova modo di evolversi per accumulo nel corso della narrazione. Buona parte della critica ha infatti riscontrato in Porco Rosso una doppia tendenza metadiscorsiva: se da un lato è evidente il rimando costante (atmosfere, vestiario, gestualità) all’immaginario del cinema hollywoodiano della Golden Age – del cinema classico di Hawks e Huston, macchina di creazioni archetipiche cui sembra strizzare l’occhio anche il trench coat à la Humphrey Bogart di Marco Pagot –, dall’altro Miyazaki elabora il suo consueto apparato favolistico e allegorico, portando le due istanze stilistico-narrative ad una fusione simil-postmoderna. A questo meccanismo, già di per sé stratificato e complesso, si accostano alcuni eventi-nucleo della trama che ampliano l’orizzonte di riferimento e intrecciano fra loro contesto storico, cinema e diegesi: l’esempio più famoso è sicuramente quello della “scena del cinema”, nella quale Marco incontra il suo amico d’infanzia e collega aviatore Ferrarin, recentemente unitosi alla Regia Aeronautica del regime. Seduti sulle poltrone di velluto, di fronte ad un film d’animazione che richiama la stilizzazione disneyana di Mickey Mouse e le classiche animazioni di McKay, il maggiore Ferrarin cerca di convincere Porco a terminare la sua fuga dal fascismo unendosi a lui; il rifiuto secco del maiale richiama una differenza di valori che è riscontrabile anche nei loro gusti cinematografici – Ferrarin apprezza il film che stanno guardando, mentre Porco lo detesta: alla normatività dell’animazione, rappresentata dall’uniformità stilistica del film-nel-film di Disney/McKay, Marco (individualista, artista del cielo) preferisce la parabolica scia di condensa tracciata dal suo idrovolante.

Ulteriore episodio degno di nota in questo contesto è la scena del combattimento in chiusura di film tra Curtis e Porco Rosso. Il consueto “scontro finale” viene parodizzato due volte: la prima quando Curtis, rimasto a secco di munizioni, estrae in volo una pistola e prova a colpire il maiale, che prontamente risponde: «Non siamo mica in un western!», alludendo esplicitamente al paratesto dell’immaginario che il personaggio americano di Curtis porta con sé. La seconda parodia, invece, ha luogo quando i due sfidanti si scontrano in un patetico e tragicomico scambio di cazzotti, atto in teoria a sancire la supposta virilità dei contendenti – e in pratica a rinnegare il valore voyeuristico della violenza. A completare il quadro metadiscorsivo sarà, nel corso del flashforward finale con la voce narrante di Fio, l’inquadratura che mostra la locandina del film prodotto, diretto e recitato da Curtis – il cui sogno, ripetuto più volte nel corso del film, è infatti quello di trovare fama e successo a Hollywood.
Suggestioni metamorfiche
Ma perché l’aviatore Marco Pagot si è trasformato in un maiale? Questa è probabilmente la domanda che lo spettatore di Porco Rosso è spinto a chiedersi più volte, nonostante il tema non sia quasi mai posto al centro dell’attenzione. La motivazione della metamorfosi non è infatti chiarita in modo univoco, per quanto vengano disseminati lungo la narrazione una serie di accenni e indizi che aumentano la curiosità; c’è ad ogni modo un filo rosso che unisce gli elementi fra loro.

Il trauma in seguito al quale ha luogo la trasformazione in maiale di Marco risale agli scontri aerei della prima Guerra mondiale, e a un’esperienza di premorte che aveva spinto l’aviatore fin sopra le nuvole – fattualmente e metaforicamente. Nella posizione liminale fra spazio e terra, Marco aveva assistito a quello che si potrebbe definire il processo di trasmigrazione delle anime (e degli idrovolanti) di chi era caduto in battaglia quel giorno. Fra i caduti ascesi in cielo figuravano alcuni suoi cari amici; in particolare, il primo marito di Gina. Sopravvissuto allo scontro aereo, Marco si era poi risvegliato mentre volava a bassa quota e aveva scoperto d’essere stato vittima di un “sortilegio”; è con questo termine che vi si riferisce in seguito, in un dialogo con Fio. Nel corso della narrazione, però, ci sono due momenti in cui la metamorfosi sembra invertire il proprio corso e lasciare intravedere il vero volto di Marco: il primo è ascrivibile a una dimensione semi-onirica, e avviene quando Fio sta per addormentarsi nella caletta dove è nascosta insieme a Porco; il secondo invece si verifica in seguito alla scazzottata fra Curtis e il protagonista, dopo che l’americano gli ha confidato quel che Gina gli aveva detto in precedenza – ovvero il suo amore nei confronti di Marco. Si tratta in entrambi i casi di momenti in cui i due personaggi femminili più rilevanti della narrazione incidono con forza sulla vita del protagonista, per mezzo di espressioni del loro affetto per lui; è di secondaria importanza che, nel finale, sia Curtis ad assumere la funzione di medium comunicativo e tramite delle parole di Gina. Se a questi elementi si accosta il malcelato disprezzo che Porco nutre nei propri confronti – «Un maiale che non vola è solo un maiale», ma anche «Per i maiali non c’è né patria né legge» – e il senso di colpa e di inferiorità rivolto ai compagni caduti in battaglia in quell’operazione della prima Guerra mondiale, episodio in seguito al quale è avvenuta la metamorfosi – «Quelli bravi erano quelli che sono morti» –, possiamo intuire nel personaggio di Marco i tratti del senso di colpa del sopravvissuto (survivor’s guilt).




La condizione suina riflette la visione che Marco ha di se stesso; in questa chiave, la sua costante fuga dagli affetti diventa sinonimo di una sindrome dell’impostore difficile da contenere – specialmente nei confronti di Gina, per la quale prova in maniera evidente dei sentimenti, senza che però questi vengano mai esplicitati; il senso di colpa di Marco coinvolge anche lei, in quanto vedova di uno degli uomini che Marco non era riuscito a salvare.
È anche per questi motivi che Porco Rosso si distingue dalla precedente produzione di Miyazaki: il “sortilegio” non è una maledizione da cui liberarsi, ma una condizione psicologica sottile e messa ai margini della narrazione. Nel finale, però, Marco non è più lo stesso personaggio che abbiamo incontrato all’inizio del film: il suo arco di trasformazione è completo, e ne sono prova sia il fatto che Curtis riesca a intravedere il suo volto umano, sia la possibilità che, alla fine, Marco abbia davvero raggiunto Gina nel giardino dove lo stava aspettando da tempo – come si può notare da quell’idrovolante rosso ormeggiato sull’isola (si veda l’immagine sopra). Il sortilegio è infranto e la guerra è di nuovo alle porte; sull’isola dell’Hotel Adriano, però, il mondo sembra prendersi una pausa.
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