Il ragazzo e l’airone – Mondi altri e riti di passaggio nel nuovo capolavoro di Miyazaki
In city and in forest they smiled like me and you
But now it’s come to distances and both of us must try
Your eyes are soft with sorrow
Hey, that’s no way to say goodbye
(Leonard Cohen – Hey, That’s No Way to Say Goodbye)
Subire una perdita, lottare con la rabbia e poi arrivare a lenire l’angoscia, continuare a vivere e infine dire addio senza dolore. Ancora una volta sensei Miyazaki realizza un film sul trauma e accettazione del distacco. Il ragazzo e l’airone, ispirato dal romanzo di Genzaburō Yoshino E voi come vivrete? (1937), è l’ultimo denso capolavoro del regista giapponese a dieci anni da Si alza il vento e dopo una lunghissima gestazione.
Siamo nei cari e battuti territori miyazakiani: Seconda Guerra Mondiale, il dodicenne Mahito perde la madre in un incendio nell’ospedale causato da un raid aereo. Il padre risposa la sorella della madre, Natsuko, ma il ragazzo fatica ad accettare questo cambiamento e vive negli incubi e nei ricordi della sua cara perduta. Così come accade per le piccole Satsuki e Mei (Il mio vicino Totoro, 1988), Mahito costruisce un mondo alternativo dove fuggire, un complesso universo dove incontrerà figure archetipiche come la pietra del mondo che regola tutto, Himi la ragazza che ha il potere del fuoco o strambi villain parrocchetti guidati dal loro re. In questa surreale brigata spiccano i Warawara, teneri spiritelli che per nascere devono sfuggire alla preda degli aironi e che si aggiungono alle figure Ghibli più amate come i nerini del buio (Il mio vicino Totoro, 1988) e i Kodama (La principessa Mononoke, 1997).
Nel suo viaggio il ragazzo sarà accompagnato proprio da uno strambo airone (dentro cui si nasconde un uomo) piombato improvvisamente nella nuova casa di Mahito e dalla vecchina Kiriko che nel mondo altro diventa una una giovane e potente guida. La missione è quella di salvare dalla prigionia Natsuko che, da figura ostile per Mahito, diventerà via d’uscita dal buio depressivo.
Nella sua parte più indecifrabile e complessa, Miyazaki apre a un discorso tanto filosofico, quanto personale: l’origine del mondo e il conflitto tra generazioni distanti, spesso affrontato nella sua filmografia. Mahito incontra il suo antenato, un mago intento a tenere le redini di quell’universo alternativo attraverso 13 forme geometriche: ormai stanco di quel peso, il vecchio vorrebbe passare quell’onere al giovane ragazzo. Ma qui si ha la rottura, Mahito decide di non accettare e di proseguire per il suo percorso. Oltre ai rimandi alla cosmogonia, il vecchio mago è una sorta di semi-dio, una forza demiurgica che ha una grande responsabilità ma che infine fa prevalere il suo lato più debole, accusando la stanchezza di sorreggere la precarietà del mondo. Inoltre, da un livello più autobiografico, si potrebbe leggere questo segmento come una riflessione sul difficile rapporto del regista stesso con il figlio (Goro, anch’esso cineasta) e sulla frattura, spesso necessaria, tra padri e figli.
Il ragazzo e l’airone è un atto liberatorio per chi vive la creazione come un dilemma, è il processo del regista stesso che aveva annunciato la fine della sua carriera per poi ritornare sui suoi passi e regalarci un’impresa indimenticabile. È un’opera tanto illuminata e frenetica, quanto oscura, dove negli sguardi dei personaggi, nei loro silenzi, imperversa improvvisamente quello che in inglese viene detto eerie feeling, un’atmosfera strana e inquietante. La possiedono le stesse bizzarre creature che incontriamo nel corso del racconto, buffe ma con qualcosa di buio, misterioso.
D’altronde questa sensazione attraversa tutta la filmografia di Hayao Miyazaki e proviene dalla mitologia giapponese e dalle sue superstizioni, con una linea di distinzione tra bene e male molto più flebile rispetto all’Occidente. L’airone è infatti nel folklore nipponico una figura ambigua, legata al mondo degli spiriti e dei morti, un collegamento con l’altro mondo, e rappresenta un refrain della poetica miyazakiana: la liberazione dalla gravità.
La lezione di Miyazaki non è umanista. Dice infatti in Dove torna il vento, raccolta di scritti e interviste: «Vendere grazie al finto umanismo della democrazia del Dopoguerra per me è assolutamente sbagliato. Così facendo, si finisce per rendere insulsi il modo di vedere e percepire molte cose. Per quanto mi riguarda, non ricordo di aver mai realizzato qualcosa dai toni “umanisti”». Piuttosto è un racconto di passaggio, un film che si muove su una soglia ma che infine approda a una rivelazione, passando per il compendio del cinema del grande maestro dell’animazione.
E allora come vivremo? La lezione non è categorica, la risposta non c’è, alberga forse proprio in quei passaggi (il sottobosco, la torre misteriosa) che generano nel protagonista Mahito una rivelazione insita nella strada da percorrere, nell’incavo di tempo tra presente e passato, nello scarto tra ieri e oggi. Il mondo circostante non è necessariamente crudele, è imprevedibile, ma ci accompagna tra bene e male, tra vecchine sagge e spiritelli maliziosi, tra momenti di autodistruzione e apprendimento di quella che è la nostra responsabilità: aggrapparsi comunque all’esistenza, perché… il faut tenter de vivre!
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