
La città incantata – La poetica del disegno 2D
Apparso sul grande schermo nel 2001, La città incantata, capolavoro pluripremiato del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki, conserva intatta la sua autorevolezza cinematografica e artistica. Con circa 330 milioni di dollari di incassi complessivi e 30,4 miliardi di yen, è rimasto per 19 anni il lungometraggio di maggior successo della storia in Giappone, superando nelle vendite addirittura Titanic. Vinse l’Orso d’oro alla cinquantaduesima edizione del Festival di Berlino ed è il primo e unico anime ad essersi aggiudicato l’Oscar per il miglior film d’animazione (2003).
Unicum artistico nella storia nipponica, La città incantata è diventato icona di stile per l’intero Studio Ghibli, casa di produzione senza rivali nel panorama dell’animazione non occidentale e “casa” d’adozione per la mente di Miyazaki. Si tratta a pieno titolo di un vero e proprio canone di gusto, quello portato a compimento dal regista nel suo ottavo lungometraggio, la cui grafica tradizionale aggira i limiti del 2D puntando alla raffigurazione di un immaginario interiore mai così sapientemente esplorato, alla ricerca di un confronto anti-realistico con lo spettatore, che convoca invece al cospetto di una dimensione altra. Ed ora, nel bel mezzo di un’approssimativa conversione al digitale, il compleanno del capolavoro Ghibli veste i panni di un monumentale monito nei confronti della corsa inconsapevole alla computer grafica, rendendo ancora più evidente lo scarto tra un passato d’animazione recentissimo e una galoppante occidentalizzazione.

Frutto della commistione di più progetti, tra cui la trasposizione del romanzo Il meraviglioso paese oltre la nebbia, La città incantata gravita attorno alle vicende che interessano un magico stabilimento termale dove gli spiriti yōkai trascorrono le proprie ore di riposo. La parentesi vacanziera, topos classico delle avventure animate, ingloba anche la famiglia di Chihiro, che, in viaggio per traslocare in una nuova abitazione, si imbatte in un misterioso complesso di edifici, ingresso principale della città incantata camuffato da vecchio parco-giochi abbandonato. Sospeso in questa costante dimensione liminale di transizione, nel trasferimento da una casa vecchia a una nuova e nel rituale di passaggio dalla fase infantile alla giovinezza, il film racconta il percorso della piccola Chihiro nella presa di consapevolezza della sua nuova età e dei nuovi mezzi a disposizione.
La costruzione di una realtà “altra” da parte di Miyazaki, che ricorda operazioni quali quella di Alice nel Paese delle Meraviglie o de Il Mago di Oz, rientra nel generale tentativo connaturato all’animazione di sganciarsi dalla realtà al fine di crearne una versione alternativa. Queste para-realtà, mondi capovolti governati dalla magia, sono però tangenzialmente incrociate dall’operazione di Miyazaki, la cui città incantata è piuttosto una parentesi di riflessione, uno sguardo differente da adottare: il fogliame e la polvere che nascondono l’automobile dei genitori di Chihiro al loro ritorno manifestano la durata nel tempo dell’esperienza nel regno di Yubaba, la dimensione non sostitutiva ma coabitativa dell’avventura di Chihiro rispetto alla sua quotidianità. La Città Incantata è per Miyazaki dunque non solo il banco di prova figurato per un essere umano ancora acerbo, ma un luogo di conservazione anche di quella dimensione nipponica tradizionale ormai in estinzione: l’aver popolato la città di spiriti dimessi e stanchi, presenze fantasmatiche bisognose di cure e di bagni rivitalizzanti, fa del suo mondo irreale una dimensione ancillare a quella reale, il lascito di un passato di simboli e tradizioni che vive alle pendici di un presente velocissimo. Più in generale, si tratta della dimensione del “nostalgico”, il luogo deputato al raccoglimento del “perduto” e “dimenticato”, tabula rasa di esperienza, per un pubblico infantile, ma riappropriazione del rapporto intimo con le cose per un pubblico adulto.

La scelta di lavorare col disegno tradizionale ha permesso all’artista di confezionare un’opera flessibile a plurimi livelli di complessità. L’animatore giapponese, nella composizione grafica degli ambienti delle sue terme animate, non intende dar vita ad un universo spiritico parallelo, ma evocare, a metà tra il sogno e il ricordo, una dimensione mentale, riattivare uno sguardo perduto a cui conferire una mise estetica. Pensare all’immagine come ad un’immagine-mentale, o meglio, immagine-interiore, e non come ad un prototipo del reale ben congegnato e funzionante, permette a Miyazaki di combinare personaggi e luoghi in maniera simbolica, di manipolare forme e colori al fine di dar vita a scenari che attivano l’immaginazione senza alcuna pretesa razionale.
Diametralmente opposta a quella disneyana, la cui odierna cura della mimesi conferisce all’immagine un valore quasi fotografico nei confronti del reale, l’operazione dello studio Ghibli mette in scena qui un luogo strutturalmente non-reale, dove ogni elemento si attiva secondo un proprio regime estetico. La semplicità dei tratti del volto di Chihiro e Aku, opposta al carico di dettagli del volto di Yubaba, spingono lo spettatore a leggervi un indizio concettuale, e mostrano quanto il 2D, riesca a restituire il potenziale inesauribile dell’immaginazione, a resistere alla tentazione di obbedire al principio di non-contraddizione per creare ex novo creature immaginarie e ideali e non copie di creature reali.

Le tavole de La città incantata, lontane dal tentativo di spingersi nella terza dimensione dell’immagine animata per diventare (quasi)reali, vivono della loro non-realtà in maniera consapevole, forti di un’estetica pregiatissima di cui l’occhio dello spettatore non può che godere oltre l’invecchiamento della pellicola. La città incantata rappresenta forse oggi più che 20 anni fa non solo un modello artistico cui tendere quando stimolati eccessivamente dalla tecnologia 3D, ma, come la cornice termale magica che racconta, uno spazio contemplativo di riattivazione, dove “l’incanto” che anima la città, e per esteso il potere intrinseco all’animazione, consiste nell’allontanamento dal mondo attuale per riscoprirsi capaci di abitare un mondo carico di contraddizioni. Una terapia visuale ad un’eccessiva pretesa di realismo, e anche all’apparentemente inquietante, e si spera passeggero, esperimento total 3D di Earwing e la strega, con cui lo Studio Ghibli ha deciso questo mese di festeggiare.
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