
“Thor: Love and Thunder” è un film per i bambini
Da qualche parte in Nuova Zelanda un compiaciuto Taika Waititi se la sta ridendo. Sa che ogni “vero cultore” del personaggio di Thor, marvelliano o mitologico che sia, è “triggerato” per via del suo ultimo film. È quasi onorato, con ogni probabilità, di essere colui che ha rovinato Thor e quindi di essere la pecora nera dei Marvel Studios. E non mentiamo a noi stessi, è anche bello odiare Taika Waititi non solo perché probabilmente si fa il suo gioco (ormai persino i suoi haters più appassionati lo sanno) ma per una strana fisiologica reazione d’equilibrio. Tutti i grandi film di Waititi sono in fin dei conti un’orgia di buoni sentimenti talmente stucchevoli che un po’ di sano disprezzo non può che esserne la naturale risposta. Thor: Love & Thunder, a dispetto del suo titolo, si fa amabilmente odiare riuscendo così a palesare una natura mai così esplicita in un film Marvel Studios: l’essere un film per i bambini.

È il 2022 del resto e i bambinoni troppo cresciuti si apprestano a diventare la nuova classe dirigente. Alla guida di quest’orda di millennials, generazioni x e z ci vediamo bene il Chris Hemsworth(y) di questo film, un incrocio tra un tiktoker e un animatore di villaggi vacanza Alpitour. È un Thor compiaciuto e meta-cinematografico, probabilmente anche stanco di tutta un’epoca (e un’epica) in cui l’uomo bianco cis-etero domina il panorama narrativo. Sopratutto nei primi 30/40 minuti (prologo escluso) si ha l’impressione di assistere a qualcos’altro, qualcosa cioè che è sì Marvel Studios ma non MCU. Se avete visto i tre One-Shot dedicati a Thor e disponibili su Disney Plus – Team Thor Parte 1 e 2 e Squadra Darryl – avrete un’idea migliore di cosa s’intende. Nella prima parte del film siamo ben oltre la commedia anche sgangherata, siamo in una vera e propria parodia talmente sopra le righe da sembrare quasi che la storia disprezzi sé stessa. Sembra, appunto, ma non è così, perché in realtà il film sta adottando una sorta di linguaggio in codice – ci prova almeno – che è quasi impercettibile all’orecchio adulto.

L’anima del film, cioè ciò che mette in moto gli eventi, è saggiamente lontana dalle battute e dalla risate e si trova invece nel percorso di crescita di Jane Foster, qui finalmente un personaggio completo e compiuto. La sua storia, e quindi anche la narrazione della sua malattia, è trattata con molta delicatezza e semplicità, senza mai scadere nella banalità. Jane ha il cancro, soffre, non vuole mollare e non vuole essere circondata da amici e conoscenti che passino il tempo a dirle che non è sola. Nella lotta trova la sua ragione di vita. A fianco di Natalie Portman troviamo Tessa Thompson – “Val” -, la quale è difficile capire se stia recitando o semplicemente facendo la brava “sis” per Jane/Natalie. Una cosa è certa, il personaggio di Valchiria non può essere stato scritto ma al massimo improvvisato da un’attrice che mette in scena tutta e solo sé stessa.
Discorso a parte per il Gorr di Christian Bale, il quale è poco pervenuto se non solo nei momenti indispensabili. Non si capisce infatti l’elogio nei suoi confronti da parte della critica generalista. Bale è qui poco più un corpo (il corpo magari anche di American Psycho unito alla fama del suo Batman) funzionale al film. Non è particolarmente terrificante, né portatore di chissà quale provocazione anti-sistema. Non è insomma un villain alla Killmonger di Black Panther, come era lecito aspettarsi. Gorr è praticamente un uomo nero, un boogeyman degli incubi dei bambini, appunto.

C’è solo una piccola parte del film che parla anche e direttamente agli adulti, o comunque alla parte mediamente più vecchia del pubblico dei giovanissimi. È la parte centrale ambientata ad Omnipotent City che ha per protagonista lo Zeus di Russell Crowe. Il suo personaggio è l’esempio perfetto di decostruzione marvelliana della mitologia tradizionale. A una Warner/DC che propone le sue divinità perfette, la Marvel risponde non con divinità imperfette ma con perfette incarnazioni della decadenza. In continuità con l’intento meta-cinematografico del film, Crowe interpreta una leggenda del peplum ormai decaduta. E in linea con quello che era l’intento politico in Thor: Ragnarok, ovvero la sfiducia verso una classe dirigente occidentale ormai al collasso, qui Zeus incarna meravigliosamente la decadenza tronfia di una classe politica dedita al disinteresse. «Ha attaccato divinità minori, noi siamo al sicuro» è una frase che ricorda troppo da vicino il disinteresse americano ed europeo per le crisi umanitarie nel “mondo non civilizzato”.

Ma a parte il riuscitissimo intermezzo politico, il film nella sua parte finale si conferma una storia per i bambini dove “per i bambini” non è da intendere in senso dispregiativo come film immaturo, bensì come un chiaro intento comunicativo. È come se il film fosse consapevole di non avere più nulla da dire a degli adulti falliti e miseri e puntasse il tutto sui bambini che, proprio come in questa storia, sono l’ultima speranza per sconfiggere il male con la loro forza, ingenuità e, perché no, anche coi loro giocattoli. Un tema che pare essere ripreso da Jojo Rabbit e confermato dalla scelta del tema musicale del film Sweet Child of Mine. Thor: Love & Thunder è probabilmente meglio di Ragnarok pur confermando pregi e difetti del suo predecessore. È il classico film estivo pieno di luci e musiche che strapperà più di qualche sorriso al pubblico in sala e magari esalterà i vostri bambini. A patto che non siano troppo cresciuti e già disillusi.
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[…] di individuare pattern abusati, sbavature vistose di trama (tutte cose presenti), o una eventuale comicità pesante alla Waititi (ecco questa no). Ma non ce l’ho fatta. Il film sta in piedi. Non solo ha retto le mie […]
[…] uguale intensità. Gunn raffina il tentativo di creare un film fatto di contrasti come è stato il Love & Thunder di Waititi, ma al posto delle rotture di senso volutamente violente – e difficilmente […]