
The Story of Looking – Viaggio nel mondo visivo
Un bisogno insaziabile sempre soddisfatto, quello di vedere; una fame dello spettatore meravigliosamente appagata da Mark Cousins in quest’opera visionaria che in primis ci mostra – e ci parla di – immagini. Presentato in anteprima nazionale al Biografilm Festival di Bologna, The Story of Looking è una riflessione dell’autore sull’atto universale di guardare (qui potete leggere la nostra intervista al regista nordirlandese). Tratto dall’omonimo libro di Cousins, la spinta per la realizzazione del documentario arriva con un’operazione oculare potenzialmente nociva a cui questi si deve sottoporre per rimediare alla cataratta del suo occhio sinistro.
Siamo nella stanza di Cousins, l’inquadratura è sempre intima; un’intimità che l’artista decide di esasperare, concedendoci l’accesso alla sua testa, dove di fatto si svolge il film. Terrorizzato all’idea di perdere il senso più importante per un cineasta e un cinefilo, sceglie di passare l’intera vigilia dell’intervento celebrandolo: non passeggiando e guardando il mondo intorno a sé, ma a letto, a immaginare di vedere.

Uno dei temi portanti dell’opera, quello del rapporto tra realtà e immaginazione, viene introdotto fin dall’incipit con le parole di Ray Charles: il musicista non vorrebbe riacquistare la vista, afferma, poiché già vede tutto con la mente. Inizia così un immersivo viaggio all’interno dell’immaginario visivo dell’autore, tra analogie ed associazioni inconscie, scaturite dalla memoria, e infinite citazioni, da Cézanne a Persona di Bergman, da Tarkovskij a Courbet e Marina Abramović fino ad arrivare a Baudelaire e altri ancora.
Cousins tenta di ricostruire le fasi del processo visivo nell’essere umano e lo fa a partire dall’immagine fuori fuoco spesso scartata nel mondo della fotografia, ma emblematica dello stato della visione ancora in formazione del neonato, così come di quella dell’occhio malato del protagonista, che proponendo una serie di opere sfocate ne esalta la bellezza ineffabile – arte da cataratta. Ci si inoltra poi in una celebrazione del mondo in tutte le sue sfumature cromatiche, fatta di acute analisi sul potente effetto dei rapporti tra tinte complentari, includendo riflessioni sul daltonismo e sulla luce e l’ombra.

Numerosi ancora sono gli spunti di riflessione proposti: dallo sguardo lussurioso verso altri corpi durante lo sviluppo del desiderio in fase adolescenziale, all’auto-osservazione, il farsi soggetto del proprio stesso sguardo, al rapporto tra mondo visivo e mondo onirico. L’autore arriva infine a parlare del valore dello sguardo nell’era visiva per eccellenza, quella tecnologica. E, se un selfie viene affettuosamente definito una celebrazione del qui e ora, il bombardamento visivo che subiamo nel ventunesimo secolo sembra essere secondo Cousins nient’altro che il prolungamento di un processo in atto da sempre.
Non scriveva Baudelaire di essere sopraffatto dalle immagini di Parigi? Appare limpida, dunque, all’artista l’impossibilità di sfuggire a questa eterna sottomissione alle immagini. E, dopo la visione di un’opera simile, viene naturale provare per questo un’immensa gratitudine.
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