
West of Babylonia – Intervista a Emanuele Mengotti e Marco Tomaselli
In occasione della 16ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner, è stato presentato in anteprima mondiale West of Babylonia, documentario su Slab City, una comunità alternativa e fuori dalla società, situata nel deserto californiano. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Emanuele Mengotti e Marco “Toma” Tomaselli, rispettivamente regista e direttore della fotografia del progetto.
L’intervista, in pieno stile 2020 a causa delle distanze, si è svolta in videochiamata, con immancabili problemi tecnici di segnale.
Parliamo di com’è nato West of Babylonia: perché Slab City in particolare? Come l’avete scoperta e avete deciso di creare questo progetto?
Emanuele Mengotti – La scoperta è stata quasi casuale, sia io che Toma abbiamo vissuto per lunghi periodi in America, da italiani ne siamo sempre stati affascinati e siamo sempre stati pronti a visitarla, a scoprire e lasciarci stupire da questo mondo al di fuori del normale, siamo un po’ dei Wim Wenders che viaggiano per queste strade alternative. Slab City l’avevo scoperta per Into the Wild, e trovandomi in quelle zone ho deciso di andare lì e vedere un concerto dove hanno girato il film, arrivato con la mia ragazza ho trovato una sistemazione dove trascorrere la notte, è stato veramente surreale arrivare lì – già non vedo bene, dovrei indossare gli occhiali ma non li metto mai -, arrivare di notte, con questa luna piena che illuminava le sagome, le facce… Il giorno dopo ho contattato Toma, con cui volevo lavorare insieme da tanto tempo, avevamo già fatto alcune cose senza però davvero instaurare quello che si è trasformato negli ultimi anni in questa collaborazione molto forte e molto intima tra di noi a livello artistico. Ho mandato questo messaggio, semplicemente “ho la storia”, e quale è stata la tua risposta Toma?
Toma è purtroppo perso nei meandri del segnale internet, il racconto della sua entusiasta risposta perso nella statica.
EM – Quindi siamo partiti, e perché Slab City? Slab City è essenzialmente un gruppo di persone che scappano da quella che è la società americana, essendo però in realtà i più americani degli americani. Quello che raccontavamo noi stessi agli abitanti di Slab City, gli Slabbers, è che quando noi da italiani siamo venuti qui in america ci immaginavamo sicuramente un mondo piuttosto diverso, un pochettino più selvaggio; invece quando arrivi qui e attraversi la strada con l’arancione ti fanno la multa, se bevi una birra fuori dal bar ti fanno la multa, e ci siamo resi conto che non era questa l’America che volevamo scoprire, dove volevamo vivere. Quando siamo invece arrivati lì abbiamo trovato i veri pionieri dell’America che noi immaginavamo, ci siamo trovati di fronte a tutti i personaggi dei film che amavamo da ragazzini, da quello di Easy Rider ai cowboy, dalla ragazzina alla signora più anziana, ed è proprio questo che ci ha attirato.
Mi ha infatti molto affascinato questo aspetto di una comunità così isolata e drasticamente staccata dalla società, che risulta però essere un perfetto specchio di tutti gli aspetti più tipici della cultura americana. Rimane comunque, immagino, un posto molto particolare dove realizzare un progetto, da un lato nel vostro creare un rapporto di collaborazione con la comunità, dall’altro, soprattutto per Marco, per girare in un ambiente così complesso, con tutte le sfide che ne conseguono.
Marco Tomaselli – Rispondo per la parte tecnica, è stato sicuramente importante per me avere un inizio di carriera qua a Pistoia, dove fondamentalmente anche lì non ci sono risorse, all’inizio ti maledici ma alla fine diventa oro in una situazione del genere. Eravamo solo noi, in realtà anche per scelta, qualcuno voleva unirsi a dare una mano, ma noi dovevamo necessariamente andare in due, per un discorso anche semplicemente psicologico di approcciarsi alla comunità, meno fattori ci sono e meno incutiamo timore o cose del genere. Dal punto di vista tecnico io mi occupo di tutta la parte camera e Mengotti registra l’audio, tutto in maniera abbastanza semplice, rispecchiando lo stile che vogliamo seguire. Noi abbiamo girato con una camera da cinema, una RED HELIUM, scelta che a scuola ti direbbero essere la più sbagliata per un progetto del genere, ogni batteria dura intorno ai 45 minuti, ogni giorno ci ritrovavamo con 500 GB di girato… è una scelta che lavorando da anni ho comunque deciso di prendermi sulla groppa per tanti altri motivi, i problemi e le sfide però rimangono, e le più comuni erano quelle legate all’elettricità; noi ci attaccavamo due ore al pannello solare di un tizio, poi alla sera al generatore di quello che ci ospitava, ma intorno alle dieci/undici staccava. Gestire questa cosa è stata sicuramente una delle sfide più grandi, avendo girato con delle attrezzature che non si sposano molto con questo tipo di situazioni, ma siamo dell’idea che ci debba essere una componente tecnica che supporti uno stile di esperienza cinematografica che ti faccia immergere il più possibile, staccandoti dal mondo esterno, vogliamo davvero farti entrare a far parte di questa comunità per 86 minuti. Però si… è stata tosta!
EM – Per tutto il tempo che abbiamo girato non avevamo mai break, non ci fermavamo mai, mentre mettevamo tutto a caricare stavamo lì con la comunità, ed effettivamente come dice Toma non c’erano mai certezze, sei lì che hai quasi finito di copiare il filmato dalla scheda e qualcuno ti stacca il generatore, se sei fortunato chiedendotelo, perché deve attaccarlo alla sua chitarra, o al frigorifero per poter avere una birra fresca. Ogni momento in cui sembrava potessimo prendere una pausa e rilassarci succedeva qualcosa, un incendio scoppiava da qualche parte, qualcuno era stato morso da un ragno, un continuo bombardamento di situazioni ai limiti dell’assurdo in cui eravamo immersi, che è quello che abbiamo voluto trasmettere nel film. Eravamo diventati parte di questa comunità, e i suoi abitanti ci hanno accolto molto tranquillamente, tuttora siamo in contatto con loro, ma a livello lavorativo un non stop di problematiche.
MT – Dici eravamo immersi, in realtà ci eravamo immersi, era molto attiva la cosa, noi abbiamo un lato proprio a livello personale per cui in questi casi ci piace magari non andare oltre il limite, ma sicuramente non dire mai di no e buttarsi, che è un po’ la filosofia con cui tutto è stato mandato avanti, in questo progetto come nell’ultimo in cui abbiamo lavorato, ci autoimmergiamo in situazioni assurde e poi stiamo li a osservare e riprendere cosa succede, è un po’ il motore trainante del nostro stile, il nostro naturale modo di espressione in questo campo.
Ho letto qualcosa di questo nuovo progetto e volevo proprio chiedervi a riguardo in chiusura, intanto un’ultima domanda su West of Babylonia: quanto siete stati più o meno immersi in questo progetto a Slab City?
EM – Siamo stati tre volte, giusto Toma?
MT – Eravamo…
Con notevole tempismo il segnale si interrompe nuovamente, costringendo Emanuele a ricordare.
EM – Allora proviamo ad affidarci alla mia memoria! Siamo stati tre o quattro volte, io una volta in più, all’incirca un mesetto di tempo trascorso lì, ovviamente vincolato anche a motivi di budget, nonostante la nostra vita fosse molto frugale, tra alloggio, birre e assicurazione le spese si accumulano, noi saremmo ovviamente rimasti anche più tempo.
Per concludere volevo allora chiedervi proprio del vostro progetto successivo, che ho letto essere relativo alla pandemia di Coronavirus a Las Vegas, un altro posto estremamente americano e ricco di contraddizioni.
EM – Esatto, avendo visto il nostro stile capirai bene che non bisogna aspettarsi un reportage. Io stavo lavorando da diversi mesi a Las Vegas per un altro progetto, avevo scoperto che esiste una rete di tunnel, non vere e proprie fogne ma un sistema di drenaggio, dove vivono delle persone, una specie di comunità, e ho trascorso alcuni mesi esplorando e conoscendo queste persone, e questo doveva essere il tema principale del documentario. Toma è arrivato dall’Italia, dove la situazione del virus stava scappando di mano, e seguendo le notizie da casa siamo stati un po’ le Cassandre della situazione, avendo visto quello che a breve sarebbe successo anche in America, non ci saremmo immaginati la reazione di questo paese ma sapevamo che era solo questione di tempo. Avevamo la camera e avevamo dei personaggi che volevamo sviluppare, abbiamo deciso di raccontare i giorni precedenti all’esplosione del Coronavirus e i primi mesi successivi allo scoppio, raccontandoli attraverso dei personaggi meno usuali. Abbiamo una coppia, che vive all’interno di questi tunnel, e un’attricetta di serie B candidata con Trump per andare al congresso, in tutto questo abbiamo poi raccolto più possibile varie situazioni di questa Las Vegas durante il Coronavirus, qualsiasi momento assurdo immaginabile, sviluppando un po’ogni classico topos di Las Vegas. Si vede dall’inizio la follia più totale, per poi vedere come la gente si adatti, e come alla fine la vita della coppia, come quella dell’attrice, non sia poi particolarmente cambiata, e le preoccupazioni, dopo il momento di paura iniziale, siano le stesse di prima, la pioggia che allaga i tunnel più che il virus. È stato un documentario molto difficile da girare, come hai visto il nostro stile è molto intimo, e in una situazione come questa devi sempre sincerarti della sicurezza altrui e propria, specialmente con persone che hanno poco cura della loro stessa salute, non era facile riuscire a mantenere la sicurezza riuscendo però a creare l’intimità che permettesse di raccontarli al meglio.
MT – Anche questo si ricollega proprio al discorso che facevo su come ci muoviamo, non tralasciando il discorso della sicurezza, il nostro occhio è attirato da situazioni che non sono forse le più estreme, ma sono comunque quelle che in un periodo così ti allontanano dallo stare chiuso a casa in sicurezza. Ogni giorno uscivamo alle sette per riprendere, andando a pesca di storie e personaggi in giro per Las Vegas, e trovare un equilibrio tra tutti questi fattori è stato particolarmente difficile, però insomma… siamo sopravvissuti tutti quanti!
EM – Eh sì, a volte il rischio maggiore non era neanche il virus, ma tutte le situazioni complesse in cui finivamo, una volta ci siamo ritrovati in questa chiesa nel mezzo di un quartiere afroamericano, guardati male come unici bianchi presenti in un momento così complicato… è finita che siamo diventati migliori amici, volevano invitarci a ogni messa possibile e immaginabile! È stata nel complesso un’esperienza molto interessante.
Sembra di nuovo interessante, come in West of Babylonia, questo ritratto molto intimo di realtà meno conosciute, che così bene rispecchiano l’America nelle sue contraddizioni storiche e relative a un momento così complesso. Da parte mia e di tutto Birdmen Magazine vi ringrazio per la chiacchierata, e vi auguro in bocca al lupo per questo e tutti i vostri progetti, che seguiremo con piacere!
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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