
Estinzione o restrizione? La razza umana di Aldrovandi
Chi non si è mai trovato, volente o dolente, nel bel mezzo di una di quelle infinite discussioni polarizzate in questo strano periodo pandemico? Sembra partire da questa domanda L’estinzione della razza umana, il nuovo lavoro di Emanuele Aldrovandi in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino che con perizia quasi documentaria restituisce drammaturgicamente uno spaccato linguistico, sociale e perché no, anche politico, incentrato sul flusso di commenti popolari e populisti che ci hanno riguardato e investito online e offline negli ultimi due e rotti anni.
Se, argutamente, non si fa mai riferimento diretto al Covid, la narrazione resta però nei fatti sostanzialmente esplicita, sostituendo il virus reale con una strana mutazione genetica che trasforma le persone in tacchini: l’effetto umoristico ammorbidisce così la materia drammaturgica fornendo conseguentemente alla brillante penna del giovane drammaturgo e regista reggiano una miriade di geniali scambi di battute che, nonostante (o forse proprio per questo) sembrino citazioni prese da commenti social o chiacchiere da bar, strappano spesso risate a scena aperta.

L’amarezza che ne consegue in seconda battuta, quando ci si rende pienamente conto del fatto che si sta ridendo letteralmente di se stessi e delle proprie contraddizioni estremistiche, permette così al pubblico, con estremo rispetto, di riappropriarsi catarticamente del proprio percorso pandemico di opinioni e conseguenti stati d’animo, i quali dopo essere usciti da noi e messi in scena di fronte ai nostri occhi, fanno il loro ritorno dentro attraverso una consapevolezza potenziata e soprattutto con una maggiore comprensione di sé e dei propri meccanismi.
Seppure si possa giocare a indovinare quale possa essere l’opinione prevalente dell’autore, è la completa mancanza di giudizio nel testo a rendere decisamente concreto il processo di universalizzazione dell’operazione teatrale: poco importa quindi se la materia, che potrebbe andare avanti all’infinito, viene conclusa con un finale-non finale sottolineato da una climax attesa per gran parte del testo: ad Aldrovandi non interessa mettere in scena un’opera sulla pandemia, bensì rappresentare e dare senso con l’aiuto del pubblico alle mille sfaccettature dell’essere umano contemporaneo e alla difficoltà che esso ha nel comunicare e, soprattutto, nel farsi ascoltare.

Un lavoro più che riuscito, in completo equilibrio sul filo drammaturgico senza mai cadere nell’oblio della retorica sempre in agguato: merito evidente non solo di Aldovrandi, ma anche del cast al completo (Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi), in vero stato di grazia, così come delle scene e dei costumi rispettivamente firmati da Francesco Fassone e Costanza Maramotti, del tutto in equilibrio col resto, e non era semplice.
Una penna e una regia, quelle di Aldrovandi, che dopo Farfalle non smettono di stupire e delle quali non possiamo che attendere con impazienza la prossima proposta. E scusate se è poco.

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