
Farfalle di Emanuele Aldrovandi – Il peso dell’essere sorelle
Dopo due anni di rinvii, finalmente, Farfalle, testo di Emanuele Aldrovandi vincitore del Premio Hystrio 2015, debutta con la regia dello stesso autore. Si tratta di uno spettacolo denso, a tratti capace di farti sentire un vero e proprio peso sullo stomaco, soprattutto se, almeno una volta nella vita, ti sei sentita o sei stata “sorella”. Sono proprio la complessità e la pesantezza che Aldrovandi porta in scena, con delicatezza e lucidità, a farci provare, con maggiore urgenza, questo claustrofobico desiderio di leggerezza, per cui arriviamo a invidiare la brevissima vita delle farfalle.
In scena due sorelle, una bionda (Giorgia Senesi) e una mora (Bruna Rossi), che mai vengono identificate con i propri nomi, perché, nell’idea di Aldrovandi, queste donne-farfalle si sono sempre considerate solo “sorelle”. E sembra quasi inevitabile pensare alle due veline di Striscia la Notizia – la bionda e la mora – e a tutto quel mondo patinato ormai collaudato nel semplificare la figura femminile riducendola a una deliziosa caricatura.

La perplessità, di fronte a un testo che tratta di sorellanza scritto da un uomo, è comprensibile, vista la carenza di personaggi femminili autentici e complessi, a cui siamo state abituate, e dato lo spettro del mansplaning sempre in agguato. Sulle prime la diffidenza aumenta con l’incipit dello spettacolo:
Io e mia sorella non siamo cretine come le nostre coetanee. Tutte sciacquette fatte con lo stampino che si credono speciali. […] vogliono tutte essere uniche, e non si accorgono che è proprio questo a renderle uguali.
Ascoltando queste parole, pronunciate dalla bionda (quale tra le due, se non la bionda, si sarebbe potuta preoccupare di essere considerata sciocca e frivola?) è inevitabile sentire crescere il nervoso, riconoscendo la competitività e la rivalità tra donne a cui millenni di mentalità patriarcale ci hanno addestrate. Eppure, uno spettacolo che innervosisce così fin da subito, andando a toccare, senza alcuna remora, un nervo talmente scoperto, probabilmente ha qualcosa da dire.

In alternativa potrebbe essere solo un accumulo di cliché e semplificazioni, come quelle che, poco dopo, appesantiscono la scena in cui le sorelle si trasformano, come per gioco, nel proprio padre assente e nella sua giovane moglie (la loro odiosa matrigna, come nelle peggiori fiabe).
Figlie mie. Sono qui, oggi, nel giorno del vostro ventunesimo compleanno, con un regalo per voi. Vi regalo un sogno che vi farà essere oggetto dell’invidia di tutte le vostre giovani coetanee. […] Figlie mie. La settimana prossima avrete la fortuna di sposarvi. Con due uomini, a loro volta fratelli, i quali vi amano, pur non conoscendovi di persona e avendo visto soltanto una vostra foto. […] Essendo voi le prime donne della loro vita, vi ameranno in modo infinito, senza i confronti e i paragoni che spesso minano le relazioni di coppia.
Apprendiamo così, tra uno stereotipo e l’altro sulla figura femminile, la storia di queste due “povere orfane contemporanee”. Abbandonate da bambine dalla madre, morta suicida, e dal padre, emigrato per sfuggire a debiti e guai con la giustizia, le due sorelle vengono ora incitate a sposarsi accettando un matrimonio combinato, unica possibile soluzione alla loro condizione di povertà e abbandono.

La bionda e la mora hanno caratteri diversi e sogni diversi, ma sono inevitabilmente unite nella difficoltà. Ciascuna è abituata a non crollare nella solitudine grazie alla presenza dell’altra, e grazie a un gioco crudele e inarrestabile che le lega da quando hanno sei anni.
Ben presto capiamo il grande potere della collana con il ciondolo a forma di farfalla che le ragazze si litigano. A turno una della due se ne impossessa e, padrona della vita della sorella per qualche istante, può obbligarla a fare qualsiasi cosa, sfruttando l’intima conoscenza che ha di lei per mettere alla prova il suo affetto ferendola: svendere le proprie fotografie a uno squallido mercatino, farsi tatuare “sono una puttana” su una gamba o portare a termine qualsiasi altra imposizione dispettosa. Un gioco da bambine, fatto di ripicche, cattiverie, desiderio di ridere dell’altra legandola a sé indissolubilmente, perché, pur di non interrompere il gioco, mettendo fine al divertimento, ciascuna è disposta a tutto. “Se mi vuoi davvero bene, fai quello che io ho deciso per te” sembra essere il sottinteso a ogni dispetto.

Si tratta, però, soltanto di un gioco, per quanto spesso sadico, e le sorelle continuano a giocarci finché la bionda non decide di accettare la proposta di matrimonio avanzata dal padre, perché:
Forse potremmo emanciparci anche noi, dal concetto di emancipazione. Emanciparsi dall’emancipazione, e cioè accettare un matrimonio combinato.
Così il fragile equilibrio, costruito su un’alternanza di dispetti e piccole vendette, si frantuma, perché una delle due decide di usare il gioco della Farfalla per costringere l’altra a seguire la propria volontà e ad accettare il fatto che si separeranno. Il problema sembra transitorio, ma la ferita lasciata da una presa di posizione che si scontra con quanto comunemente stabilito – restare insieme sempre – brucia come un tradimento, un abbandono. La recitazione riesce a rispecchiare questo contrasto perché, da questo momento in poi, a turno, una delle due interpreti sembrerà esprimersi in maniera incoerente rispetto al contesto, come a voler sottolineare, con una nota stridente, quella rimpianta armonia ormai andata perduta.
Seguono scenari della vita adulta, la vita “vera”, quella in cui ormai non si gioca più e allora la Farfalla diventa lo strumento, dopo anni di distanze e di scelte di vita radicalmente diverse, per riavvicinarsi e, grazie alla reciproca conoscenza intima, per ferirsi profondamente, con la convinta presunzione di sapere che cosa è meglio per la propria sorella.
Le tematiche che emergono sono quelle impegnative, pesanti e complesse che costituiscono la base del “problema senza nome” come lo definiscono Maura Gancitano e Andrea Colamedici: essere donna. Aldrovandi in Farfalle riesce a intercettare molte delle questioni che rendono problematica questa condizione: le (mancate) possibilità lavorative, la maternità – desiderata, sofferta, imposta, negata – la sessualità intesa come oggetto di dibattito pubblico, la tossicità di alcuni rapporti – sentimentali o familiari che siano – e l’inadeguatezza di una scienza medica propensa a curare prevalentemente i maschi.
Le due sorelle danno vita a tutti i personaggi che hanno popolato le loro vite, delineando di volta in volta vari scenari, come in un gioco infinito, complice un allestimento monocromatico essenziale, realizzato grazie a moduli capaci di trasformarsi in mobili di casa, ambulatori medici, bancarelle di mercato, negozi di formaggi e persino in una bara. Il meccanismo trasformativo che scandisce l’alternarsi delle scene non è d’immediata comprensione, perché quasi nessun oggetto di scena supporta il processo di trasformazione e fatichiamo a capire se davanti a noi ci siano ancora le due ragazze che stanno giocando o se, davvero, nella loro vita siano state costrette a compiere gesti umilianti in nome dell’amore per la propria sorella.

Farfalle sembra quindi essere il modo in cui Aldrovandi ci dice che accettare di non capire le scelte delle persone che amiamo e, nonostante questo, rispettarle senza imporci è la più difficile delle sfide. Accettare che ciò che per noi è prioritario, inviolabile e urgente risulti inverosimile e un po’ assurdo agli occhi di chi ci ama.
Il nostro sguardo sarà dunque sempre parziale – come lo è quello di un uomo che si mette alla prova volendo costruire personaggi femminili complessi e credibili – ma non per questo è neutrale. Ogni sguardo, infatti, implica un punto di vista e, inevitabilmente, una scelta: scegliamo di giudicare chi ci sta intorno, facendolo sentire sbagliato per legittimare noi stessi, o scegliamo di avere uno sguardo di comprensione, di stupore, di meraviglia e di sorpresa di fronte a scelte che ci spiazzano e, magari, ci lasciano perplessi, ma essenzialmente ci mettono alla prova e ci costringono a porci delle domande?
Amiamo le nostre sorelle così come sono, “pacchetto completo”, con le scelte che fanno, nonostante la nostra diffidenza, o siamo ancora impegnate nella lotta per il titolo di “prima della classe”, perché noi sappiamo meglio degli altri cosa è necessario fare per essere “vere donne” (e magari anche “vere femministe e i veri femministi”)?
È una scelta scontata decidere di sforzarsi di costruire personaggi femminili credibili e scrivere un testo che parla di sorellanza? Sembra banale come domanda, ma la risposta è no.

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[…] Due sorelle inseparabili, un gioco d’infanzia, il bisticcio per un ciondolo a forma di farfalla: apparentemente Farfalle è uno spettacolo spensierato, come il suo titolo. Ma partendo dalla superficie – dominata da mentalità che al dialogo e alla comprensione preferiscono il ricatto emotivo e gli stereotipi – Aldrovandi affronta quel sentimento viscerale e ambivalente che ci lega alle nostre sorelle. Così la leggerezza svanisce davanti alla nostra pretesa di sapere ciò che meglio per chi amiamo: “Se mi vuoi davvero bene, fai quello che io ho deciso per te”. Farfalle è uno spettacolo che parla di sorellanza scritto da un figlio unico, ma lascia il segno. Un testo denso che ci restituisce un’immagine nitida e un po’ spiacevole di noi stessi: quando inizieremo a prenderci cura delle relazioni che costruiamo? Federica Scaglione / Leggi la recensione […]
[…] penna e una regia, quella di Aldrovandi, che dopo Farfalle non smettono di stupire e delle quali non possiamo che attendere con impazienza la prossima […]