
La Biennale delle drammaturgie – Dialogo con Antonio Latella
In occasione di #Birdmen7 – Biennale 2019 e Venezia 76 abbiamo intervistato il direttore artistico del Festival Internazionale del Teatro. Riportiamo il dialogo con Antonio Latella a proposito delle drammaturgie contemporanee, tema della Biennale Teatro 2019.
Il Festival della Biennale di Venezia è prima di tutto un’eccezionale occasione di incontro. Nello scenario appartato e privilegiato dell’Arsenale cittadino, artisti provenienti da tutto il mondo non solo propongono i risultati del loro lavoro, ma hanno anche l’occasione di dialogare direttamente con colleghi, addetti ai lavori e spettatori per schiudere la propria cassetta degli attrezzi.

Giunta nel 2019 al terzo anno di lavori, la Direzione della Biennale Teatro, dopo essersi concentrata sulla regia e sull’attore, pone al centro della sua indagine le drammaturgie, intese non tanto, o non solo, nel significato di “scritture per la scena”, quanto come coordinate lungo i sentieri del processo creativo. Proveremo a tracciare il quadro del lavoro svolto durante quest’edizione puntellando l’analisi con le osservazioni emerse dal dialogo con il direttore del Festival, Antonio Latella, che ci spiega la sua visione delle drammaturgie contemporanee.
La parola drammaturgia è da considerarsi polisemica, portatrice di diversi significati. Lucia Calamaro, tra le protagoniste di questa Biennale con lo spettacolo Nostalgia di Dio, ha affermato che chiunque dichiari di sapere cosa sia oggi la drammaturgia sta mentendo. Essa può risiedere nella penna dello scrittore, ma anche nel gesto del attore, nell’oggetto di uno scenografo o nelle scelte di un direttore artistico. In questa sede ci soffermeremo sulla scrittura di uno spettacolo o, per meglio dire, sulle scritture possibili.
Se pensiamo a William Shakespeare, il più celebre dei drammaturghi, immaginiamo un grande poeta che mette alla prova le arguzie della sua penna sulla bocca e sul corpo degli attori che compongono la sua compagnia. Secoli dopo, Samuel Beckett arriva a teorizzare un teatro senza parole, fatto solo di gesti da compiere (Atto senza parole). Nel solco di quelli che Latella definisce «numi tutelari», il teatro contemporaneo si è dovuto interrogare sulle strade da percorrere, che oggi sono innumerevoli e spesso divergenti.

Inevitabile quindi che oggi la parola “drammaturgia” vada declinata al plurale: durante il Festival abbiamo assistito a monologhi corali dettati da partiture musicali (Club Gewalt, Yuri) e più tradizionali storie di emarginazione (Patricia Cornelius, Shit), a immaginifiche epopee filosofico-famigliari (Manuela Infante, Realismo) ed esperienze performative in cui l’artista diventa attrazione da museo (Julian Hetzel, All inclusive). Una pluralità di forme e di significati che il direttore del Festival ci ha così motivato:
«La scelta degli spettacoli è stata dettata non dalla spettacolarizzazione, ma in funzione del percorso che il pubblico può fare. C’è il regista-autore, così come c’è il regista che delega il testo a un’ altra figura, c’è un teatro di pura composizione musicale e c’è l’autrice che diventa attrice. Il fatto che poi ciascun autore abbia proposto almeno due spettacoli ha stimolato nel pubblico un confronto più profondo con i singoli artisti e soprattutto con il loro universo creativo. Un Festival, diversamente da un Teatro Stabile, deve rivolgersi ad un pubblico trasversale, che possa scegliere consapevolmente e sia predisposto alla sorpresa e all’ascolto.»

Colpisce senza dubbio che in un panorama così variegato e votato alla sperimentazione la parola rivesta ancora un ruolo centrale. Se infatti per un attimo ci allontaniamo dal contesto teatrale ci accorgiamo che forme artistiche diverse, come la serialità, hanno costruito i loro successi sulla cura maniacale di trame e personaggi, e non mancano nel teatro contemporaneo esempi virtuosi di questo specifico processo creativo: basti pensare al successo che stanno riscuotendo in giro per il mondo opere come quelle di Stefano Massini (Lehman Trilogy, Donna non rieducabile), che mai prescindono dalle voci dei protagonisti e dal gusto per la narrazione. Dopo anni di sperimentazioni e decostruzioni stiamo tornando ad una preponderanza del testo scritto? Secondo Antonio Latella:
«Quello che bisogna chiedersi è cosa significhi oggi la parola “testo”. L’edizione della Biennale teatro 2019 è dedicata ad Heiner Müller, autore che, tra i primi, ha avviato la destrutturazione di storie e personaggi. Per il teatro mi piace pensare a una parola che funzioni in maniera non dissimile da un libretto musicale: in un primo momento essa può essere utilizzata fisicamente nel suo legame con il corpo dell’attore, per poi gradualmente trasformarsi in un luogo da abitare, in uno spazio scenico. Brecht parlava di parola che diventa habitat: un luogo in cui vivere non sempre è facile.»
Forse proprio tale difficoltà ha indotto alcuni degli autori presenti al Festival a dare voce, nei propri copioni, anche alle istanze concepite dai singoli attori, che spesso escono dal personaggio per operare con esso un confronto che in certi casi risulta profondamente drammatico. Non di rado infatti il flusso della finzione teatrale viene interrotto per dare voce ai sentimenti dell’artista nei confronti del ruolo o della scena che sta interpretando. È il caso, ad esempio, dei due spettacoli presentati dal regista partenopeo Pino Carbone (ProgettoDue). Qualcosa di simile avveniva nel recente Pinocchio, spettacolo diretto proprio da Latella, con l’interprete di Geppetto. Gli abbiamo quindi chiesto quale funzione assolva questo svelamento del processo creativo.
«Uscire dal personaggio costringe lo spettatore alla non immedesimazione, ad uno scarto intellettuale rispetto a ciò che sente. In Pinocchio il meccanismo era diverso perché l’attore era realmente libero di abbandonare lo spartito e di improvvisare. Quando questo non succede, quando l’attore continua a recitare, il gioco metateatrale smette di funzionare.»
Che si metta o meno in discussione il rapporto con il testo scritto, ciò che sembra lasciare quest’edizione della Biennale è la necessità di nuovi orizzonti, in cui l’immaginazione degli autori possa incontrare, in un rapporto di libero dialogo, quella degli spettatori, che nelle parole del drammaturgo tedesco Jens Hillje, Leone d’oro di questa Biennale Teatro 2019, «vengono a teatro per condividere sensazioni e pensieri e sono pronti a mettere in discussione la propria visione del mondo e degli altri.»

Sono ancora le storie il veicolo di questo incontro? La sensazione è che da esse non si possa ancora prescindere: lo stesso Heiner Müller, già definito grande decostruttore, per attraversare le tematiche del suo tempo, come la violenza, l’oppressione, il femminismo, si è dovuto servire di una Macchina di Amleto (allestito per il Festival da Sebastian Nübling), in cui l’archetipo narrativo shakespeariano è ancora funzionale alla decodifica della realtà contemporanea. Alla storia va però senza dubbio applicata una visione lucida di questa realtà e dei suoi linguaggi, che si trasformano a velocità fino ad oggi sconosciute. Nelle parole di Latella, «una storia non si può raccontare così com’è». Proprio qui probabilmente si cela il segreto della grande scrittura.
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