
L’happy end di Michael Haneke
«Spazzolino da denti. Asciugamani. Capelli. Posa la spazzola. Fa la pipì. Spegne la luce.»
Trasmesse in diretta da un social, scorrono insieme ai silenziosi titoli di testa le prime immagini di Happy end, diretto da Micheal Haneke, che – dopo un’accoglienza tiepida all’ultimo Festival di Cannes -, a cinque anni dal pluripremiato Amour (2012), torna al cinema con un nuovo ritratto ed un nuovo microcosmo da scrutare, dividendo a sua volta non solo lo spettatore fortuito, attratto da un titolo rassicurante e poco avvezzo ad un cinema che fa del cinismo le sue fondamenta, ma anche il suo pubblico più affezionato, con una pellicola mancante forse di quella incisività che è lecito aspettarsi, parlando del probabile film di fine carriera del regista. Il punto d’osservazione del cineasta rimane l’alta borghesia europea in perenne dissoluzione, questa volta sullo sfondo di una Calais crocevia dell’immigrazione, con la giovane Eve (un’innocente e mefistofelica Fantine Harduin) costretta a trasferirsi, dopo un misterioso malore della madre, dal padre (Mathieu Kassovitz) fedifrago ed incurante nei suoi confronti fino a quel momento, entrando così nella magione del nonno paterno (Jean-Louis Trintignant), patriarca ottuagenario costretto dalla vita nella vita, e fondatore di un’impresa edile lasciata nelle mani della figlia Anne, interpretata graniticamente da Isabelle Huppert.
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L’articolo è stato pubblicato il 8 dicembre 2017 sul sito http://inchiostro.unipv.it/
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