
L’uomo che uccise Liberty Valance – Usare la leggenda per raccontare i fatti
Non bisogna fidarsi troppo della semplicità. La semplicità è ingannevole. L’uomo che uccise Liberty Valance è generalmente considerato l’ultimo grande film western di John Ford, con buone ragioni. Esce nelle sale americane nella primavera del 1962. I suoi protagonisti sono John Wayne, James Stewart e Lee Marvin. Ci sarebbe qualche altra cosa da dire sul cast, ma per il momento accontentiamoci. Al botteghino parte bene. Piace molto, sorprendentemente, alla critica. All’inizio degli anni ’60 Ford non è visto di buon occhio dall’establishment intellettuale di casa sua: troppo americano, troppo western, troppo infantilmente retrogrado.
Sul western, più in generale sul cinema americano, soffia in quel tempo un vento di morte. Il sistema degli studios, almeno nella sua classica configurazione, ha cominciato a sgretolarsi da una decina d’anni, anche se non tutti gli effetti sono visibili e misurabili. Lo star system tradizionale cigola. L’uomo che uccise Liberty Valance esce al cinema nel 1962, che sarebbe anche l’anno della morte di Marilyn Monroe; sembra una coincidenza, non è davvero così. Il film in effetti celebra, a suo modo, il funerale di un mucchio di cose. Del western, di una certa concezione della storia e dello spirito americano. Della giovinezza, di cinema e d’anagrafe, di Wayne e Jimmy Stewart, coppia di archetipi irripetibile.
Al di là dell’Oceano lo scenario è differente. Un’avanguardia cinefila rivaluta da lontano il western e le sue convenzioni. Sul fondo di torride estati spagnole, un gruppo di volenterosi si prepara a rivoltarlo come un calzino. A Sergio Leone i film di John Ford piacevano parecchio, non propriamente ricambiato. A Leone non andava troppo a genio Peter Bogdanovich, che amava John Ford più della sua vita, con ardore quasi fondamentalista. Attribuiva a L’uomo che uccise Liberty Valance “l’ingannevole semplicità di un’antica xilografia”. Ancora la semplicità. Effettivamente, il film ha questo tono dimesso e anche un po’ austero che può fuorviare.

L’austerità del film passa anche dalla forma. L’uomo che uccise Liberty Valance è un western in bianco e nero, la cosa curiosa è che nessuno sa bene perché. Per il John Ford circa 1962, dire di no al colore equivaleva a mettersi a guidare contromano, se conta qualcosa l’epicità Technicolor VistaVision di Sentieri Selvaggi (1956). Tante le ipotesi. Si è parlato di diktat economici della Paramount. Bisognava risparmiare, sulla pellicola e gli scenari. C’è chi ha ipotizzato che forse, a colori, la violenza del film avrebbe perso di credibilità. O magari il bianco e nero serviva, più semplicemente, a camuffare in modo credibile l’invecchiamento di John Wayne e James Stewart. D’altronde Truffaut ricordava come, in privato, Hitchcock attribuisse l’altrimenti inspiegabile fallimento commerciale di Vertigo (1958) al cedimento del volto di Stewart. Probabile che anche Ford fosse sensibile a un argomento del genere.
Ford motivava (parzialmente) il suo ritorno al bianco e nero con la rinnovata disponibilità a misurarsi con una sfida stimolante dal punto di vista tecnico. Col senno di poi, viene automatico pensare che il film è in bianco e nero perché non poteva essere altrimenti. Come giustificarne, diversamente, la natura oscillante e contraddittoria. Il racconto crudo e classicista. Il buffo affresco malinconico. Lirico nella rievocazione del passato, pure permeato di disillusione. Autopsia e celebrazione di un genere e di un sistema di riferimenti culturali. E politici.
Per capire il film, bisogna capire il western. Il western si spiega solo con l’America. L’uomo che uccise Liberty Valance è la tela di un ragno meticoloso, che con precisione chirurgica cattura e rivisita grappoli di idee che provengono da posti molto diversi. Democrazia e non democrazia. La libertà di stampa e le virtù del dibattito, l’eterna partita tra stato di diritto e violenza. La nascita di una nazione, l’equilibrio instabile e molto cinematografico tra fatti e leggenda. Il film fa man bassa di stereotipi, la città violenta, lo sceriffo inerme, la folla mutevole, la ragazza, il bandito. Al fondo dell’impasto, nella sua semplicità, c’è il più classico degli intrecci sentimentali. L’amore complicato di due uomini, John Wayne e James Stewart, per la stessa donna, Vera Miles. Li tiene insieme un cattivo di quelli che ti prendono e non ti mollano più, il grande Lee Marvin.

L’uomo che uccise Liberty Valance insegue la leggenda per raccontare i fatti. Eccoli. Il senatore degli Stati Uniti Ransom Stoddard (James Stewart) torna con la moglie Hallie (Vera Miles) nella città di Shinbone, da qualche parte nel West ma non si sa bene dove, per omaggiare la memoria dell’amico scomparso, Tom Doniphon (John Wayne). Il film rievoca le vicende di molti anni prima attraverso un lungo flashback. Stewart è un giovane di belle speranze arrivato nel West con tanto idealismo e una solida cultura giuridica. Poco fuori Shinbone, fraternizza sgradevolmente con l’istinto prevaricatore del bandito di zona, nome ironico, Liberty Valance (Lee Marvin). Le cose in città non vanno bene. Lo sceriffo Andy Devine è totalmente sopraffatto dagli eventi. Il cronista locale, Edmund O’Brien, smorza la sua (peraltro) formidabile penna nell’alcool. Come spesso capita, nel genere, l’unico che sa che pesci prendere è John Wayne.
Il personaggio che si tende a notare un pochino di più, oggi, è Pompey (Woody Strode), “collaboratore” afroamericano di Wayne, perché è lo spiraglio attraverso cui la sottile regia di Ford contrabbanda uno dei temi più forti e provocatori del film, almeno da un punto di vista puramente politico. La segregazione. Chiaro che lo spettatore moderno, piuttosto allertato sull’argomento, allinei lo sguardo alle sue priorità e rielabori il film secondo il proprio spettro ideologico. Per Ford, all’epoca, il problema, anche se per nulla trascurabile, era uno tra i tanti. Wayne è l’emblema di una violenza giusta, comunque violenza. Stewart, l’incarnazione del traballante ma fiducioso stato di diritto. Il film fa cronaca di una conciliazione forse impossibile.
La regia di John Ford modella l’immagine traendo il massimo dalle convenzioni. Usa il piano americano, quintessenza western, per inchiodare l’estetica e la psicologia dei tre protagonisti. Wayne, duro e malinconico. Marvin, carognesco. Stewart, goffo ma benintenzionato; insegna a leggere e scrivere alle gente del posto, seduce con la delicatezza dei suoi modi urbani Vera Miles, mettendosi di mezzo nell’amore tra la donna e Wayne. Valorizza il dibattito e la civiltà. Ma, a conti fatti, i suoi sforzi sbattono contro il proverbiale muro di gomma. Liberty Valance, come tutti i bulli/autocrati di questo mondo, non sa che farsene delle belle parole. Il nobile e ottimista Stoddard dovrà imparare a usare la pistola.

Facce interessanti. Il fantasma del western futuro, Lee Van Cleef. L’arrogante e intimidatorio Lee Marvin, una delle sue caratterizzazioni migliori. Della trinità fordiana classica, manca solo Henry Fonda. Non c’era spazio per lui. Il sempre informato Bogdanovich ci fa però sapere che, anche volendo, Ford non lo avrebbe preso in considerazione. Colpa di un dissapore vecchio una decina d’anni. John Wayne ricordava le riprese come un incubo. Raccontava di come il regista, che voleva fargli pagare il fatto di essere stato imposto dallo studio, lo maltrattasse in continuazione. Era anche un modo per tenerlo sulle spine. Non è un film facile per Wayne, contemporaneamente dentro e fuori la storia. Va meglio a James Stewart, che però recita 54enne la parte del ragazzo, senza particolari accorgimenti di trucco. La cosa va spiegata, insieme al bianco e nero e alle riprese in studio è la chiave del film.
L’uomo che uccise Liberty Valance è un western dai fondali di cartapesta, cortesia dei teatri di posa Paramount, dal pacato bianco e nero. Teatrale e artefatto, pienamente consapevole della sua natura, il film gioca sul crinale della contraddizione per esplorare ruolo, limiti e possibilità del mito nella costruzione e rielaborazione della storia. Usa l’elegia per mettere in guardia dai rischi di una rivisitazione sentimentale del passato. Celebra la nascita della civiltà, alludendo al poco edificante patto di sangue che fa da cornice. Ricorre all’abc del racconto amoroso, ma getta una luce molto ambigua sugli esiti. Chi ama davvero Vera Miles?
La dialettica tra fatti e leggenda, il film la risolve nel cinismo di una battuta passata alla storia e che non si può fare a meno di citare, pure qui. “This is the West Sir. When the legend becomes fact, print the legend.” Ha molto a che fare con la filosofia mangia soldi del cinema spettacolare americano. Ford non nasconde che il re è nudo, ma non cerca giustizia sommaria. Accetta che Hollywood continui a essere quella colossale bugia a cui non possiamo e non vogliamo in alcun modo resistere. L’importante è acquisirne consapevolezza, giocando sull’ambiguità di questo riconoscimento. Bisogna prestare attenzione al montaggio delle inquadrature conclusive. Alla scansione tra eleganza formale e nervosismo della camera a mano. Vale come un cazzotto, una provocazione, muta e per questo ancora più potente. Un’esplosione di verità, ma filmata quasi a volersene scusare. In modo innocente, sobrio. Semplice.
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