
«Ride Away» – Le frontiere di John Ford
Di Luca Giardino e Stefano Vercellone
Wyatt Earp: Mac, have you ever been in love?
Mac: No, I’ve been a bartender all my life.
Questo breve frammento di dialogo tratto da uno dei capolavori di Ford (My Darling Clementine, 1946) incarna una poetica ed una rara sensibilità artistica che risiedono in un cinema ormai definitivamente abbandonato, di cui neppure la nostalgia permette di cogliere tutte le sfumature, tutti i dettagli, tutta la grandezza.
Il cinema di John Ford è stato territorio d’indagine di molti studiosi per quasi un secolo e sembra sia già stato scritto tutto sul regista statunitense: se ogni atto glorificatore nei suoi confronti risulta superfluo, indubbiamente si parla di un autore a tutti gli effetti che è riuscito a plasmare il nostro sguardo sull’America. La sua sterminata carriera (più 115 film realizzati, di cui molti andati perduti) comprende opere considerate veri e propri capolavori, che hanno alimentato il prestigio della settima arte – basti pensare alla confessione di Orson Welles a Peter Bogdanovich in cui afferma «Mi hanno sempre ispirato i grandi maestri del passato, e con questo intendo John Ford, John Ford e John Ford» – e che risiedono ancora oggi nell’olimpo della narrazione cinematografica statunitense.

Ford vanta inoltre la vittoria di ben 4 premi Oscar alla miglior regia (The Informer, 1935; The Grapes of Wrath, 1940; How Green Was My Valley, 1941; e infine l’acclamato The Quiet Man, 1952). Tutti e quattro i film premiati sono degli ottimi drammi sociali e commedie, ma la fama del regista affonda le radici in un genere ben definito – celebre la frase con la quale Ford si è presentato ad una riunione dello Screen Directors Guild: «Mi chiamo John Ford e faccio Western». Risulta ora più che mai difficile risolvere esaustivamente la mole di problematiche e questioni che circondano il vasto universo cinematografico fordiano. Ci sembra più corretto dunque soffermarci su alcuni aspetti attinenti alla sua ricca produzione di film Western: opere che non delineano solamente la sintassi e la semantica del genere, ma fondano la loro essenza su tematiche più ricercate, ovvero l’eterno conflitto tra la primitiva innocenza dell’uomo e il progresso, nonché l’impronta shakespeariana della struttura narrativa.
Grazie a Ford l’America è riuscita a rispecchiarsi nella cellulosa e filtrare le sue contraddizioni attraverso l’obiettivo della cinepresa, mentre un impassibile uomo con una benda sull’occhio e un grosso sigaro in bocca rimane a guardare.
Stagecoach (1939)
Stagecoach occupa un ruolo fondamentale nel cinema statunitense, non solo perché riabilita il genere western, entrato in crisi dopo il clamoroso flop di The Big Trail di Raoul Walsh (1930), ma perché si pone in diretta continuità con la poetica di Ford, ora completamente a suo agio nel costruire un western in cui viene mostrata la grezza leggenda della frontiera americana mescolata, curiosamente, alla grande tradizione letteraria europea. La trama, piuttosto nota, narra le vicende di una diligenza diretta verso la città di Lordsburg, costretta ad attraversare il minaccioso deserto assediato dai nativi Apache sul piede di guerra.
La diligenza rappresenta un piccolo microcosmo della civiltà occidentale dal momento che trasporta un banchiere, un dottore alcolizzato, una donna benestante incinta, un rappresentante di liquori, un giocatore d’azzardo e una prostituta. Tutto il film è dunque incentrato sui rapporti interni nella diligenza circondata da una minaccia senza volto, invisibile e pronta all’attacco. In Stagecoach, però, gli indiani non sono altro che un pretesto: per Ford la vera minaccia è la civiltà, con le sue contraddizioni e la sua corruzione, opposta all’immensità della prateria e alla purezza del deserto – innocenza incarnata paradossalmente dalla prostituta e dal bandito Ringo (John Wayne) premiati da un tenero happy ending. Questa realtà è sintomo anche degli strascichi della crisi del 29’, in cui non è rimasta nessuna fiducia nelle istituzioni da parte degli americani, in particolare con tutto ciò che riguarda l’accentramento di capitale – non a caso il banchiere è un personaggio fortemente negativo. Stagecoach rivela dunque la pura essenza del viaggio americano, inteso quasi sempre come ricerca di un confine morale più che un semplice spostamento attraverso una frontiera sempre più distante.

My Darling Clementine (1946)
Il Western è un genere senza tempo. Ogni personaggio sembra essere escluso dalla temporalità che lo accoglie, costretto ad essere trasportato quà e là all’interno di uno spazio incontrollabile ma riconoscibile. Nel suo capolavoro My Darling Clementine, Ford raggiunge uno dei punti più alti di consapevolezza del genere, a partire proprio dall’ ottima gestione di queste due dimensioni: lo spazio è ambiguo, versatile, dove il calore e la claustrofobia evocata dagli interni si scontra con l’immensità del deserto (ancora una volta l’amata Monument Valley, location prediletta dal regista). Il tempo, come abbiamo già accennato, è ancora una volta un elemento servile, totalmente schiavo delle azioni di chi lo abita. Il suo fine è meramente di carattere storico, necessario solo per inquadrare un evento memorabile – la famosa sparatoria dell’O.K. Corral – e per incorniciare la leggenda in tutta la sua splendida idealizzazione.
Il mito fordiano, però, non si estende solo nella perfetta rappresentazione formale – e grafica – degli eventi, ma anche nella costruzione della struttura narrativa; si dice infatti che Ford diriga i film con Shakespeare in una mano e la bibbia nell’altra e My Darling Clementine ne è una prova. Il drammaturgo inglese “appare” nella scena madre del film sotto le vesti dell’attore Thorndyke, ormai fallito e ridotto a declamare l’Amleto a qualche brutto ceffo nel saloon. Ma proprio questa sequenza sigilla il forte tono tragico del film, incarnato in tutto e per tutto dal personaggio di Doc Holliday (interpretato da un grande Victor Mature), un dottore tisico sopraffatto dai rimpianti e dai dolori di un passato oscuro, un vero e proprio dandy che si oppone drasticamente all’apollineo eroismo di Wyatt Earp (Henry Fonda). Ford riesce a trasformare una caotica e violenta cittadina in un decadente palcoscenico, in cui viene tragicamente raccontata la “storia sbagliata” di una drammatica vendetta e un immancabile storia d’amore costretta a perdersi, come da tradizione, tra la polvere del deserto.

The Searchers (1956)
Zio Ethan (John Wayne), soldato della Confederazione, ritorna a casa per essere di lì a poco testimone di un’ulteriore tragedia: il massacro della propria famiglia e il rapimento delle due nipoti da parte di una tribù Comanche guidata da Scar. Insieme al giovane Martin Pawley (figlioccio della famiglia Edwards nonché per un ottavo di sangue pellerossa, interpretato da Jeffrey Hunter) vagherà per anni sulle tracce dell’unica sopravvissuta, la piccola Debbie. Ethan non è il classico eroe del vecchio cinema Western: si interfaccia numerose volte con i membri delle tribù Comanche, e per di più ne conosce perfino la lingua ed è piuttosto abile nel parlarla.
Spietato e solitario, ma immortale protagonista di scene di enorme tenerezza: nel suo rapporto inconsueto di padre-figlio con Martin – al suo massimo splendore nella delicatissima ed ambigua scena del testamento – e nel memorabile finale, l’abbraccio incancellabile tra John Wayne e la giovanissima Natalie Wood. Martin, infine, ritorna a casa dell’amata mentre Ethan invece rimane in disparte: lo vediamo lasciarsi letteralmente alle spalle tutto questo, intento a raggiungere nuovi orizzonti (ma questa è un’altra storia, ed infatti la porta che separa il nostro sguardo dalla sua figura si chiude una volta per tutte). La forte carica tensiva del film dovuta alla dinamicità della macchina da presa e all’uso impressionistico del technicolor ha reso The Searchers uno dei film più significativi del genere. Inoltre, la particolare assiduità con cui il regista ricorre a campi lunghi e lunghissimi che inquadrano la Monument Valley, elemento assiduo all’interno del film (e non solo), simboleggiano quella che definiremmo una sorta febbre degli spazi aperti, che verrà successivamente ridimensionata, o meglio totalmente neutralizzata, nel successivo capolavoro The Man Who Shot Liberty Valance, considerato unanimemente dalla critica come il film più claustrofobico, nonché più fatalista dell’intera filmografia di Ford.

The Man Who Shot Liberty Valance (1962)
I tempi del West stanno per finire, il mondo delle piccole fattorie sta per essere surclassato da quello della grande industria e così anche la fredda e teorica legislazione dell’est si muove verso il Pacifico. Liberty Valance forse non è che l’ultimo dei banditi? E Tom Doniphon (John Wayne) l’ultimo grande eroe del vecchio e selvaggio West? Non a caso è stato abbandonato da tutti, ha liberato i suoi cavalli e incendiato la propria casa. John Wayne è l’attore prediletto da Ford nell’interpretare il ruolo di eroe nel suo cinema sin da Stagecoach e il funerale del suo personaggio è meta-discorsivamente il funerale di un’epoca d’oro nonché dell’idea di Ovest come concepita fino ad allora.
La leggenda dell’uomo che uccise Liberty Valance non può per giunta essere vissuta direttamente, ma deve essere raccontata, e a raccontarla è proprio Ransom Stoddard (il senatore interpretato da James Stewart che tutti pensano essere stato l’uomo responsabile dell’omicidio di Liberty Valance). La violenza si acuisce, il realismo prende piede ed ormai il racconto si fa nostalgia del tempo andato, che altro non è che «sogno di un sogno». Stoddard stesso, dopo aver fatto carriera a Washington, sente il bisogno di tornare ad Ovest, in un mondo ancestrale, mai così lontano dal proprio tempo. La ferrovia, cornice definitiva dell’intero film, è giunta ad ovest. Il western è morto, di lì a poco rinascerà in Italia.

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