
L’infanzia di Ivan – Onirismo di guerra
Sulle sponde del fiume Dnepr, la nebbia è illuminata soltanto dal bagliore dei razzi di segnalazione: la linea di demarcazione tra l’esercito russo e quello tedesco è segnata dai volti sfigurati di due giovani esploratori sovietici – corpi in attesa di una sepoltura dignitosa – che portano al collo un amaro cartello di benvenuto. Questa è la seconda guerra mondiale; questa è la Guerra. Una palude fra le betulle, un mulino in mezzo ai campi bruciati, una casa distrutta di cui non restano che una porta e un camino: a sessant’anni esatti dall’uscita in sala de L’infanzia di Ivan, è doveroso riavvolgere il nastro del tempo e della pellicola per celebrare il valore di rottura del primo lungometraggio di Andrej Tarkovskij, premiato con il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia del ’62 – da dividere ex aequo con Cronaca familiare di Zurlini, dopo aver superato la concorrenza di autori come Kubrick, Welles, Pasolini e Godard.

L’infanzia di Ivan raggiunge le sale negli anni del disgelo culturale sovietico, in un clima di parziale apertura nei confronti delle forme artistiche non strettamente legate all’ideologia del Partito. Tarkovskij si era diplomato da poco più di un anno presso l’Istituto statale di cinematografia di Mosca – conosciuto come VGIK – con il mediometraggio Il rullo compressore e il violino (1960), realizzato sotto l’egida di uno dei paladini del realismo socialista nel cinema, Michail Romm, ai tempi insegnante dell’Istituto e maestro di un’intera generazione (si pensi a Klimov, Chuciev o Michalkov). In Scolpire il tempo, traccia scritta delle sue riflessioni teoriche, Tarkosvkij ricorda così la fase di apprensione che aveva preceduto il suo esordio ufficiale: «“Se il film riesce”, pensavo, “avrò conquistato il diritto di lavorare nel cinema”». Il soggetto de L’infanzia di Ivan, tratto da un racconto di Bogomolov, consentiva al regista di trascendere la narrazione degli eroismi e antieroismi del conflitto bellico per «ricreare in modo nuovo la vera atmosfera della guerra con la sua ipertesa concentrazione nervosa, invisibile sulla superficie degli eventi, ma soltanto avvertibile come rombo sotterraneo». Non è un caso, dunque, che il protagonista fosse un adolescente: un giovane orfano adottato dall’esercito, che agisce in qualità di esploratore negli spazi liminali tra la terra ferma e il fiume Dnepr. Sulle sue gracili spalle poggia il peso dell’artificialità del conflitto mondiale, che traspare fra le maglie della narrazione attraverso la dialettica tra sequenze realistiche e sequenze oniriche.

In seguito alla perdita dei genitori, Ivan prende parte alla guerra contro i “fritz” – termine dispregiativo col quale chiama i tedeschi – combattendo per i partigiani prima e per l’esercito sovietico poi. Le uniche figure che si occupano del suo bene sono gli stessi capitani e colonnelli che lo hanno spedito già una volta in una perlustrazione rischiosa, e che hanno deciso, in seguito al suo insperato ritorno, di allontanarlo dal Dnepr e mandarlo in una scuola militare. Il rifiuto di Ivan nei confronti di questo compromesso e il suo conseguente tentativo di fuga evidenziano l’entità della perdita che ha dovuto subire: il suo sguardo è adulto, lontano dall’innocenza infantile, ed è solo quando Ivan chiude gli occhi per dormire (decostruendo quindi la percezione della realtà) che quella stessa innocenza torna ad affiorare dal passato. Assumono così un forte rilievo le celebri sequenze oniriche dei sogni di Ivan, che furono oggetto di una querelle critica internazionale e che operarono una forte cesura nei confronti delle convenzioni cinematografiche dell’URSS di Chrušcëv. È in queste sequenze che è possibile intravedere l’elaborazione di una prima struttura simbolico-poetica concentrata su referenti metaforici: la costante presenza dell’acqua – limpida e vitale, al contrario del torbido acquitrino della palude che le fa da contrappunto nelle sequenze realistiche – si unisce alla rappresentazione onirica di un mondo naturale e florido, dove i bambini giocano fra loro e le madri sono ancora in vita; dove gli alberi sono ancora integri, in fiore, e non vengono bruciati o utilizzati per costruire fortini di guerra.

Si spiega così il significato dell’ultima sequenza onirica, che precede il mancato ritorno di Ivan all’accampamento quando la neve comincia a scendere sul fiume. L’albero nero e avvizzito cui va incontro il protagonista, nel sogno, evoca in maniera simbolica il raggiungimento della meta ultima dell’adolescente – e cioè la sua morte, di cui veniamo a conoscenza soltanto in seguito al ritrovamento da parte del tenente Gal’cev, nella Berlino post-nazista occupata dai sovietici, dei documenti della sua impiccagione. La scelta del regista di omettere la raffigurazione degli eventi bellici di maggior rilievo, relegando la seconda guerra mondiale quasi fuori campo e concentrandosi su conflitti meno esibiti, pone l’accento sul paesaggio interiore dei personaggi: la frustrazione di Ivan, la vulnerabilità di Maša e il rapporto contrastato fra il capitano Cholin e il giovane tenente Gal’cev orientano la trama su un gioco di conflitti introspettivi; su reminiscenze provenienti da vite passate, in cui la guerra non aveva ancora bruciato i campi e abbattuto le case.

Anti-militarismo, innovazione simbolica e onirismo nella cornice di una regia fortemente personalizzata: L’infanzia di Ivan pianta il seme delle successive opere di Tarkovskij, introducendo da subito l’utilizzo di forme narrative atipiche e di tematiche fra il metafisico e lo spirituale – cifra stilistica che avrebbe poi connotato la sua intera filmografia, da Solaris a Stalker, da Lo specchio a Sacrificio. A distanza di sessant’anni, e in un periodo storico quanto mai complicato da un punto di vista geopolitico, il film d’esordio di Tarkovskij riemerge dal passato come un monito assoluto – destinato, come tutti i moniti, a non essere ascoltato.
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