
Lo specchio, il fantasma, il padre – Solaris e la decostruzione
“Noi non vogliamo affatto conquistare il cosmo. Noi vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni. Non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio”. Parole decise, e insolitamente caustiche, per quello che è anche e prima di ogni altra cosa un film di fantascienza, ambientato in massima misura a bordo di una stazione spaziale. Ma gli abissi del cosmo possono essere il miglior viatico per comprendere il Vuoto e giungere a una sorta di nichilismo nostalgico. “Ci troviamo nella sciocca posizione di chi anela una meta di cui ha paura e di cui non ha bisogno. L’uomo ha bisogno solo dell’uomo!”, concludeva l’astronauta-scienziato.

Solaris di Andrej Tarkovskij è un unicum nella storia del cinema e nella storia della fantascienza tout court. Uscito nel 1972, vincitore a Cannes del Gran Premio della Giuria prima di essere ri-presentato a Venezia in una versione abbreviata da Dacia Maraini che suscitò le ire del cineasta sovietico, Solaris era l’adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore polacco Stanisław Lem, uscito un decennio prima. Un romanzo denso, ipnotico, cupo, colmo di paradossi scientifici, epistemologici e filosofici, su cui Tarkovskij innestò la propria visione del mondo, il suo personalissimo sentimento di nostalgia e di contatto con la natura. Il risultato finale non piacque a Lem, ma questo andava messo in conto: ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua uscita, il film di Tarkovskij rappresenta un campione di fantascienza umanista e auto-decostruttiva mai più eguagliato dal cinema a venire.

Nel film di Tarkovskij, Kelvin (Donatas Banionis) è un astronauta-psicologo, che viene mandato alla stazione spaziale orbitante attorno al pianeta senziente Solaris, per valutare se la missione deve procedere. Dopo aver detto addio all’anziano padre facendogli visita nella dacia di famiglia, Kelvin si immerge nello spazio profondo, ma come approda sulla stazione spaziale si ritrova avvinto da un’atmosfera di sospetto, mistero e paranoia. Uno dei membri dell’equipaggio si è appena suicidato, un altro si rifiuta di uscire dalla sua stanza, e il terzo, il dottor Snaut di cui citavamo le parole poco sopra, accenna confusamente a misteriosi eventi che avvengono a bordo. Nella maniera più scioccante, con l’apparizione di sua moglie morta suicida anni prima a bordo del suo letto, Kelvin apprende la verità: il pianeta Solaris è in grado di materializzare i ricordi e le fantasie inconsce degli uomini della stazione spaziale.

“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Questo celebre aforisma del Nietzsche di Al di là del bene e il male riecheggia più volte nella prosa di Lem, e sembra trovare spazio anche nell’immaginario del film di Tarkovskij, che nonostante l’indubbia religiosità di matrice ortodossa aveva una buona conoscenza delle opere del filosofo tedesco. Già aveva fatto risuonare, nell’Andrej Rublëv, la teoria dell’eterno ritorno, in un dialogo tra il protagonista e il suo mentore Teofane: ineluttabilità del ritorno che si ritrova anche nella scena finale di Solaris, coniugata però ad un elemento di paradossale impossibilità. Alla fine del film, dopo tentativi anche disperati di disfarsi del fantasma della moglie Hari, per un attimo sembra che Kelvin sia tornato a casa, nella dacia del padre: ma l’inquadratura si allarga a mostrarceli galleggiare, Kelvin, il padre e tutta la dacia, su una delle isole dell’oceano giallognolo di Solaris, prigioniero del proprio passato, prigioniero del pianeta senziente e della memoria, ormai incapace di tornare sulla Terra e forse neanche di capire il vero.

“Solaris parlava di persone smarrite nel cosmo e costrette a salire, indipendentemente dalla loro volontà, un altro gradino della scala della conoscenza. Quest’ansia di conoscere senza fine, data all’uomo, per così dire, dall’esterno, è a suo modo molto drammatica: la verità ultima, infatti, è irraggiungibile”. Così Tarkovskij parafrasava il suo stesso film all’interno di Scolpire il tempo, il saggio-memoir in cui il grande regista russo rifletteva sulla sua esperienza cinematografica e sulla sua concezione dell’arte. Nel documentario Tempo di viaggio, Tarkovskij in dialogo con Tonino Guerra non nascondeva di provare un certo disappunto verso Solaris, ancora troppo legato al genere fantascientifico, con astronavi e viaggi spaziali in pieno schermo: anche sulle pagine di Scolpire il tempo Tarkovskij si lasciava andare a considerazioni retrospettivamente critiche rispetto al suo film. “Le delusioni perseguitavano i protagonisti di Solaris, e lo sbocco che proponevamo loro era abbastanza illusorio. Consisteva nel sogno, nella possibilità di prendere coscienza delle radici che legano eternamente l’uomo alla Terra che l’ha generato. Ma tali legami erano per loro in sostanza ormai irreali”. Gli artisti sono spesso giudici ingenerosi verso le loro opere: ma l’insofferenza di Tarkovskij verso gli elementi ancora propriamente “fantascientifici” di Solaris ben si riallacciava da un lato alla prospettiva meta-decostruttiva che il film assumeva nei confronti del suo genere di partenza, dall’altro lato al prosieguo del percorso di Tarkovskij tra misteriose Zone e apocalissi sventate all’ultimo minuto, per sola fede.

Anticipando o cogliendo sul nascere tutto quel discorso critico che, dall’Enzo Ungari de L’immagine del disastro in poi, avrebbe bollato la fantascienza come escapismo e come acquiescente fantasia di fuga per un pubblico socialmente frustrato, Solaris decostruiva il genere in maniera istintiva e puramente artistica, riconducendo tutti i generi della sci-fi a quella dimensione onirica e meditativa che aveva già caratterizzato i due precedenti film di Tarkovskij. Nel prosieguo della sua filmografia, Tarkovskij avrebbe realizzato altri due film che si possono accostare a Solaris in un’ideale trilogia fantascientifica: Stalker, del 1979, forse il suo capolavoro, e Sacrificio, l’ultimo film, uscito nel 1986, lo stesso anno della sua morte. Ma a questo punto, il genere sarebbe rimasto come mera suggestione: e le astronavi, i pianeti cangianti, i meteoriti e il fantasma di una “fine del mondo” sarebbero rimasti come mere evocazioni, fuori-schermo. Se la fantascienza rischia fatalmente di essere un escapismo, Stalker e Sacrificio mostravano entrambi uno sparuto gruppo di uomini appesi alle proprie responsabilità, ai propri voti, alla propria identità e vocazione – a una fede ritrovata in extremis – nel momento in cui il resto dell’umanità sprofondava in un’ignoranza colpevole.

“Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. In alcuni pianeti speriamo di trovarne il modello ideale e civiltà migliori della nostra, in altri speriamo di scoprire l’immagine del nostro passato primigenio. Tuttavia, di quel mondo, c’è anche qualcosa che rifiutiamo, da cui ci difendiamo”. Il romanzo di Stanisław Lem era ancora più preciso e ancora più caustico, nel monologo del dottor Snaut che doveva delinearne il messaggio di fondo. Ecco “quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!”. Rispetto a questa fatalità ambigua che muove ogni impulso di conoscenza dell’uomo, rispetto a questa ricerca di alterità che innegabilmente sprofonda in un desiderio di specularità quasi narcisista, tanto il romanzo quanto il film di Solaris creano un cortocircuito, grazie all’espediente narrativo di un pianeta-specchio. E se sin dai tempi più antichi i greci ci ripetevano il loro γνῶθι σαυτόν, “conosci te stesso”, Solaris, come libro e ancor di più come film, di questo imperativo greco è al tempo stesso la conferma e la confutazione.
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[…] e lo spirituale – cifra stilistica che avrebbe poi connotato la sua intera filmografia, da Solaris a Stalker, da Lo specchio a Sacrificio. A distanza di sessant’anni, e in un periodo storico […]
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