
Safe – Intervista a Federico Maria Giansanti
Federico Maria Giansanti – romano, classe 1990, fondatore della FMG produzioni – è autore e regista di Safe, un adattamento per la scena in forma di monologo di un testo scritto in origine per un cortometraggio. In Safe si prova a indagare l’esperienza di isolamento e abbandono da una prospettiva particolare, quella di chi al credere e all’avere fede ha consacrato la propria vita.
La prospettiva è infatti quella di Sister Daisy (Valeria Wandja), una giovane suora che spende la sua vita per gli altri in una tranquilla e sperduta località di montagna. A un certo punto, anche lei si trova a dover lottare per la sopravvivenza, cercando di continuare a prendersi cura degli ultimi due ospiti sopravvissuti all’isolamento totale in cui il convento è sprofondato e di farlo senza perdere la speranza. Il mondo intero, troppo occupato a gestire la gravità di qualcosa che non conosce, sembra essersi dimenticato dell’esistenza delle loro vite isolate. E Dio, forse anche lui troppo occupato, non sembra udire il suo grido di aiuto. Quando le sue forze vengono meno, la fede è tutto ciò a cui può appellarsi: ma se anche questa sembra vacillare, a cosa potrà aggrapparsi?

Se l’isolamento e l’abbandono sono certamente i temi cardine dello spettacolo, è però fondamentale anche un’interrogativo più profondo e angosciante, che riguarda non tanto l’esistenza in noi di una fede quanto la natura stessa della speranza, fondamento di qualunque forma di fede, a partire da quella nella vita. La riflessione non ci spinge a chiederci in cosa crediamo, ma come crediamo. Che cos’è per noi la fede? E quanto siamo disposti ad accettare che essa sia qualcosa che va a binario unico, che non trova potenzialmente mai risposta, se non quando noi vogliamo vederla nel mondo?
Lo spettacolo, in inglese e registrato per la fruizione online, è nato durante i primi mesi di reclusione ed è stato realizzato in collaborazione con il Teatro Trastevere di Roma. A partire da agosto ha partecipato a diversi Fringe Festival in giro per il mondo, vincendo il premio come miglior spettacolo e il premio del pubblico al Great Salt Lake Fringe Festival. Dopo la visione dello spettacolo, abbiamo intervistato Federico Maria Giansanti sull’origine e la gestazione di Safe.
Federico, guardando lo spettacolo ho avvertito delle spie di sviluppi possibili che in quel momento la forma monologo non permetteva di affrontare. Da spettatrice, lo confesso, mi è spiaciuto avere la percezione di un’ulteriore mancanza (oltre a quella della presenza). Lo spettacolo nasce per essere proprio così come lo vediamo o è così pensato data la situazione?
Lo spettacolo nasce da un concatenarsi di motivazioni e contingenze. Il discorso era duplice: riuscire a portare in scena qualcosa che parlasse del nostro presente e al tempo stesso realizzare uno spettacolo limitando il numero degli attori in scena. Così ho preso questo progetto di cortometraggio in cui un personaggio aveva principalmente un solo dialogo con una signora (che nello spettacolo esiste) e abbiamo lavorato soltanto sui piani di ascolto per adattarlo alla forma del monologo. Questo spettacolo nasce così, ma per me non è così. Quando si potrà tornare veramente a una normalità umana, nei luoghi, per me ci saranno tre personaggi. L’idea è quella di indagare l’esperienza di isolamento di tre generazioni differenti, appartenenti a ceti sociali diversi, oltre al dubbio della fede, all’attrazione e alla paura.
È uno spettacolo che credo abbia una buona base di crescita ed è anche questo il bello del teatro: un film è sempre uguale a se stesso, a teatro invece uno spettacolo, lo puoi sempre rimodulare e ricalibrare, aggiustando e modificando quello che non ti piace. Nell’arco di un tempo, dandogli un ampio respiro, puoi raggiungere la sua massima forma espressiva.

Certo, è una delle peculiarità del teatro, in questo momento ulteriormente “castrata” anche dall’esperienza dello streaming. Tornando allo spettacolo così com’è, si indaga a più livelli la dimensione dell’assenza, con diversi piani di rappresentazione dell’assente. L’assenza del pubblico, ovvia, ma non fino in fondo, dato che un segnale di riapertura era stato dato; l’assenza degli attori, interlocutori fittizi ma realmente presenti che possano dialogare con Sister Daisy per esplorare altre direzioni del discorso. E infine, la terza grande assenza, forse la più pregante e pensata fin dall’inizio, l’assenza di Dio. Un’assenza che in realtà, senza cadere nella teosofia, proprio per la natura imperscrutabile del divino in un certo senso è sempre tale. Com’è nata questa riflessione stratificata sull’assenza?
Per me la riflessione parte dall’assenza reale che tutti noi abbiamo provato negli ultimi mesi. A un certo punto mi sono iniziato a interrogare su una domanda molto semplice: “E mo’ che faccio della mia vita?”. In quel momento ero un carcerato con tutti comfort, dunque non ero un carcerato, perché avevo tutti i comfort, però partivo dalla medesima assenza di rapporto umano. Parlavo con amici nella stessa situazione e mi che chiedevo cosa potessimo fare, oltre ad avere speranza. Niente. Ma che speranza potevamo avere? E da lì sono partito, cercando un discorso che non fosse retorico, che non riguardasse unicamente me.
Mi sono iniziato a chiedere di chi potessi parlare, chiedendomi chi veramente avesse una speranza. Il pensiero è andato alla sfera della fede, ma la figura di un prete non mi convinceva. Ho pensato a una suora in quanto donna, in quanto figura che più può comprendere la vita. E in un altro senso allora una suora può credere di più alla vita rispetto a un prete, e credere di più in un dio che però nel mondo della fede va accettato per quello che è, per come si manifesta anche nella sua assenza.
Il processo di scrittura è stato poi basato sulla mia voglia di poter parlare, ma impossibilità di poter parlare con, e quindi ho messo insieme lo spettacolo nella forma monologo perché volevo che lei fosse nella mia stessa condizione, e dunque che Dio non si manifestasse mai per permetterci di vederla alle strette. Poi nel finale in qualche modo Dio si manifesta. Quando ho scritto quella scena ho pensato a un allievo e a un maestro, come se a un certo punto il maestro licenziasse il suo allievo e gli dicesse: “Adesso puoi andare”. Proprio perché sei stata così alle strette, hai tenuto tutti uniti, hai fatto cose che non avresti mai pensato di fare e mi hai anche affrontato.

C’è un dettaglio secondo me molto bello all’inizio dello spettacolo: Daisy non ha nessuno strumento di fede, salvo una croce. Ha perso persino gli oggetti usuali per parlare con Dio e si trova in una condizione di smarrimento totale, che io credo esprima bene lo stato in cui ci siamo trovati anche noi. Alle prime manifestazioni di unione e solidarietà a cui ci siamo tutti più o meno appellati sui social o sui balconi non è veramente seguito un sentimento di unione. Tutti uniti non lo siamo mai stati veramente perché ci sentivamo smarriti.
Io mi sono chiuso in me stesso, scrivendo e parlando tra me e me di come e cosa poteva essere il rapporto tra i personaggi di Safe. Anche da questo isolamento è nato il pensiero di mettere una distanza che fosse sia dovuta alla presenza di un virus tra noi sia a una più generale paura del prossimo. Perché comunque il pensiero di questa paura, nel momento in cui saremmo potuti tornare a uscire, lo avevo avuto, la domanda se mi sarei riuscito a fidare di nuovo degli altri me l’ero posta.
Per rendere questo senso di paura e il timore nell’azione dell’altro bisognava indurre in Sister Daisy una paura di contatto dovuta al modus operandi di Paul [il terzo personaggio con cui Daisy si trova isolata, n.d.a.]. Rimane sempre fuori benché si trovi in un luogo inospitale e costantemente innevato, non entra mai in casa, è silenzioso e ha un modo di comportarsi strano che impaurisce Daisy. Lui non accetta di affrontare la realtà della situazione, è umanamente spaventato di accogliere il dolore perché probabilmente lo sfogherebbe in una maniera distruttiva e proprio per questo lei ha molta paura. Questi sono aspetti che purtroppo ora non possono essere indagati, ma che mi piacerebbe approfondire quando si potrà tornare in teatro.
Dunque quali sono i progetti per il futuro di Safe? Avete in progetto di farne qualcosa anche per il cinema o solo di rimodularlo per il teatro?
Con FMG stiamo lavorando molto e cercando di continuare a dare vita e forma a questa “tournée virtuale” negli Stati Uniti, in cui avremo praticamente un Fringe al mese fino a luglio. Stiamo anche partecipando ad alcuni bandi europei che dovrebbero poterci far tornare in presenza, quando si potrà, in Bulgaria, Ucraina e Germania. Safe in Italia verrà rimodulato per il teatro e verrà fatto in italiano, mentre si manterrà la forma monologo per l’estero. Appena potremo gireremo anche il cortometraggio dal momento che Safe sta ottenendo anche buoni riscontri nei festival di cinema per la sceneggiatura.
Scopri qui un’altra intervista della Sezione Teatro!
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