
Euphoria 2 – Ancora più oltre
Si è conclusa la seconda stagione di Euphoria, l’acclamata serie di Sam Levinson prodotta da HBO e andata in onda dal 9 gennaio su NOW. Lo showrunner non disattende le aspettative: composto ancora da otto episodi (qui la recensione del primo), questo secondo capitolo della storia di Rue Bennett (Zendaya) conferma i pregi dello show uscito nel 2019, e l’autore calca la mano ancor più sugli aspetti che avevano fatto scalpore allora.
I disagi adolescenziali qui coniugati tra tossicodipendenza, relazioni abusive e traumi rimangono al centro delle vicende, le cui atmosfere si fanno più cupe, trascinando Euphoria al centro di diverse polemiche: tra gli altri, un rappresentante del D.A.R.E. (Drug Abuse Resistance Education), sindacato statunitense contro le droghe, si è di recente espresso contro i creatori e i produttori, sostenendo che la serie esalti la violenza e l’abuso di droghe tra i giovani. Come nella prima stagione, ogni episodio si apre con un avviso agli spettatori riguardante i contenuti forti della trama, e si chiude con un collegamento a diversi canali di aiuto per persone affette da dipendenze e disturbi mentali. Ciò è indicativo delle intenzioni di un prodotto in realtà lontano dall’inneggiare a comportamenti (auto)distruttivi, così come del resto lontano da un atteggiamento di semplicistico moralismo.

Euphoria dipinge un ritratto della tossicodipendenza e della violenza che non è mai allettante ma sempre crudo, tristemente realistico nel suo essere estremo. I personaggi non vengono esaltati come eroi o esempi da seguire, né per questo vengono giudicati. In questa seconda stagione le conseguenze delle loro azioni vengono portate al limite; così i problemi di rabbia di Nate Jacobs (Jacob Elordi), emblema della violenza e della mascolinità tossica, lo portano alla quasi totale emarginazione, e la tossicodipendenza di Rue ci fa precipitare con lei in un vortice di orrori culminanti con una rappresentazione dell’astinenza senza filtri, tra sintomi fisici e psichici, che certo non invoglia al consumo.
Il pregio della scrittura di Euphoria sta nel mostrare senza prendere una posizione giudicante e nell’andare a fondo nelle motivazioni delle scelte dei personaggi senza per questo giustificarle, offrendo un punto di vista sincero sul tema sempre più attuale della salute mentale.
La regia e la fotografia si riconfermano eccellenti, ancora più esuberanti che agli inizi. Soprattutto la prima metà della stagione abbonda di momenti fortemente estetizzanti, di scene oniriche e di inquadrature visivamente potenti – tra le altre cose, Euphoria è fin dal principio un’opera bella da vedere – così la dipendenza affettiva viene mimata da un pianto cristallizzato in un mare di rose e l’amore si fa citazione cinematografica e pittorica.

Una pesante eterogeneità segna tuttavia questa stagione, al contrario della prima, che vantava una struttura solida in cui ogni episodio si apriva con il background di uno dei personaggi e proseguiva intrecciando perfettamente le vicende di ognuno. Qui i protagonisti sono distanti, ciascuno isolato nel proprio personale mondo, tanto che le scene in cui li vediamo riuniti insieme hanno quasi il sapore di un crossover. Solo il terzo episodio è dedicato a sviscerare il passato di uno dei personaggi, il controverso Cal Jacobs (Eric Dane); per il resto le puntate seguono ora una ora l’altra vicenda, spaziando molto tra i generi (per esempio, gran parte del quinto episodio, dedicato alla crisi di astinenza di Rue, è paragonabile a un action movie).
La recitazione è sempre di alto livello; oltre alle interpretazioni eccezionali di Zendaya viene dato moltissimo spazio al talento di Sydney Sweeney. Se il suo personaggio, quello di Cassie Howard, viene approfondito e seguito costantemente, altre scelte si rivelano meno azzeccate, contribuendo ad uno squilibrio generale nell’arco di sviluppo dei vari protagonisti: Kat Hernandez (Barbie Ferreira), fra tutti, viene quasi completamente estromessa dalla narrazione. Da alcune indiscrezioni si evince che ciò sia dovuto a uno screzio tra l’attrice e l’autore, ad ogni modo il trattamento riservato a questo personaggio, confinato in una storyline povera con uno screen time ridotto al minimo e risolta in una scena al limite del ridicolo, è forse la maggiore mancanza nella scrittura della seconda stagione. La quale, nel caos generale, lascia comunque molte cose in sospeso, in attesa della terza già confermata da HBO.

La conclusione metanarrativa, con la messa in scena dello spettacolo teatrale, mette ulteriormente in discussione il punto di vista privilegiato di Rue per portarci a vedere le vicende con gli occhi di un personaggio nella prima stagione marginale, e ci ricorda che Euphoria è Rue così come è Lexi, Cassie, Maddy, Nate, Jules, Fez. E qualsiasi altra persona che si riconosca nei disagi dei quali l’opera si fa portavoce, o che semplicemente, come il pubblico dello spettacolo di Lexi Our Life, decida di passare un po’ di tempo seduta a osservare delle vite che potrebbero essere la sua.
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[…] tv, andata in onda per la prima volta lo scorso giugno, nasce da Sam Levinson – già regista di Euphoria – e Abel Tesfaye (The Weeknd), che insieme a Lily Rose Depp è anche protagonista della storia. […]