
Museo Pasolini: visita guidata da Ascanio Celestini
Ricerca, acquisizione, conservazione, comunicazione ed esposizione: sono queste le cinque funzioni di un museo secondo l’International Council of Museums. Questi anche i cinque elementi alla base della visita guidata all’ipotetico museo che Ascanio Celestini allestisce in onore di Pier Paolo Pasolini, in scena dal 1 al 6 febbraio 2022 al Teatro Carcano di Milano.
Una porta, una sedia e un paio di lampade. Tra gli oggetti non convenzionali che illuminano e delimitano il perimetro d’azione, una bacinella e un flacone di detersivo. È un museo scarno, povero, essenziale. Sulla soglia nella penombra, in una condizione ancora liminale, la nostra guida ci accoglie precisando che ogni museo ha il suo pezzo forte. Qual è quello di Museo Pasolini?

L’approfondito lavoro di ricerca, cifra stilistica delle sue narrazioni, è condotto anche in questo caso dal maestro Ascanio Celestini con dovizia di particolari e impeccabile attenzione a dettagli, curiosità, nomi di vie e di personaggi.
Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film su Salò, l’ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degli anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni.
Vincenzo Cerami
Pasolini ce lo ha raccontato, Celestini ce lo ricorda. Il percorso è lungo, articolato, si insinua nei meandri della storia e smuove ogni vicenda, ogni nome, ogni sospetto, ogni colpa. Il tutto, precisa l’attore-autore, rigorosamente rispettando la cronologia. Per due ore e mezza il pubblico è travolto e imprigionato dal ritmo serrato e frenetico della narrazione. Nulla viene tralasciato dall’incalzante scorrere degli eventi, che inesorabile intacca e vince le nostre vite oggi come allora, quando il poeta non si lasciò piegare.

Pasolini nasce il 5 marzo 1922, anno I dell’Era Fascista. Lentamente scopriamo che i volti delle vicende narrate dalla nostra guida, quasi fossero fatti di cronaca, sono quelli di amici e familiari, tutti personaggi della vita del poeta. Dal padre ufficiale, alla madre maestra; e poi l’arrivo del fratello, Guido-Hermes; la casa di Casarsa, la passione per l’arte e le pagine andate perdute di una tesi mai scritta.
La narrazione prosegue inarrestabile e il biografismo cede lentamente il posto alle diramazioni del contesto storico-politico-sociale. La visuale si allarga sull’epoca in cui vive Pasolini, l’età di cui noi tutti siamo eredi.
1. Rosignolo e verzura: la prima poesia
La poesia, il bene inconsumabile che fin dall’inizio della vita del poeta e della sua ricomposizione si impone su tutto. Pasolini ha sette anni quando scrive la sua prima poesia, dopo aver letto quella che sua madre ha composto per lui. Capisce che la poesia non è solo per poeti laureati e decide di scriverla nel dialetto di Casarsa. A noi resta solo qualche traccia di «rosignolo» e di «verzura».

2. Il cimitero di Casarsa: una strage di Colussi
A lato della tomba ci sono due angeli. Un tempo erano dipinti, ora è rimasta solo una foto. Sono tutti sepolti lì i Colussi, che tra di loro si chiamavano per nome perché a Casarsa erano tanti. Ma i Colussi del bar di fronte casa parlavano un dialetto vero, non erano borghesi. E infatti Livio dice «rosada», una parola che non esiste in italiano, che non è mai stata scritta prima. Lo farà Pasolini.
La poesia è un bene inconsumabile, l’unico che forse vada la pena di essere composto e realizzato. È il motivo per cui Pasolini non potrebbe accettare un incarico da impiegato in un’azienda come la Penicillina, un’azienda come ne esistono tante, che pure gli garantirebbe un rendimento tale da potersi trovare una sistemazione migliore rispetto alla provincia. Ma non può, è un poeta e lo mette in chiaro una mattina sul 109, l’autobus che tutte le mattine prende anche il nostro testimone quando dalla finestra scorge il poeta alla fermata. Il 109 passa sempre dalla parte delle baracche e il pensiero corre subito a quella povera gente. «Ma quand’è che voi borghesi la smetterete di voler trasformare tutti in borghesi?».

3. L’innocenza del partito non è persa: è piegata nel cassetto
Ma infine so che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignorata la corruzione, la volontà d’ignoranza, il servilismo. È un’isola dove le coscienze si sono difese disperatamente e dove quindi il comportamento umano è riuscito ancora a conservare l’antica dignità.
Pier Paolo Pasolini, dall’intervento all’assemblea di giovani e intellettuali, 8 giugno 1975 Roma. Testo da “Pasolini: il mio voto al PCI”, pubblicato sull’«Unità» il 10 giugno.
L’isola delle coscienze narrate da Celestini è quella che vive nelle viscere di una Roma di baraccai. Le coscienze che hanno lottato e difeso la loro dignità sono quelle dei tanti personaggi che affollano la narrazione dell’impiegato della Penicillina. Sono i ritratti ipotetici ma verosimili di Sandrone, che «non è rubato se è caduto dal camion», e con lui Busta Gialla, Don Piccicola e i ragazzini. I figli di quel Partito che li ha disconosciuti, ma non lui: lui non li ha mai dimenticati. Lui che dal partito è stato esplulso «per indegnità morale». E l’innocenza non è morta, solo stirata e piegata, nascosta in un cassetto, da cui riemerge a tratti e mai è stata viva come nella volontà creativa del poeta.
E poi c’è anche la sindone lasciata dal quadretto staccato dietro la porta. Quel vuoto che rimane sempre e non sai mai cosa ci fosse prima. Ma alla fine realizzi che è meglio se non viene riempito: quel vuoto schiude in sé tutte le possibilità. Sta dietro alla porta di ingresso di un Alberto sempre felice di fare un favore a un amico. Un uscio chiuso che non si apre mai ma che per questo spalanca tutte le porte possibili.

Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola.
Pier Paolo Pasolini

4. Una valigia Mosbach & Grüber similpelle nera modello 2131
Eccoci arrivati al 1969. Celestini non racconta quest’anno: lo rivive per assurdo in un dialogo ricostruito e mai avvenuto tra i protagonisti di uno dei suoi episodi più neri. La narrazione cede il posto all’azione in un momento di pura levatura brechtiana. «Entro nel Bar della Madonnina», a Milano è dicembre. Un uomo cerca di recuperare la valigetta nera che ha dimenticato da qualche parte. Sembra tenerci molto, è una Mosbach & Grüber similpelle nera modello 2131, l’ha comprata a Padova. Anzi, ne ha comprate tre: un affare. Eppure nessuno si ricorda di lui, di averlo visto. Del resto il suo è un viso che non resta impresso. E perché dovrebbe, se restano anonimi anche quei diciassette volti che ogni anno tornano instancabili sulle pagine dei giornali?
Io e te abbiamo lo stesso fine, ma cambiano i mezzi.
testo di Ascanio Celestini
Tu vuoi far scoppiare una guerra, a me basta far scoppiare una bomba.
Tu vuoi sequestrare il presidente della Repubblica, io gli vado a stringere la mano, ci facciamo una foto e me l’attacco dietro alla scrivania.
Tu vuoi mettere fuori legge il partito comunista, io ottengo gli stessi risultati portando i comunisti al governo col bavaglio e la coda tra le gambe.
Gli dico: abbassate la cresta sennò i fascisti vi fanno il golpe.
Tu vuoi fare il colpo di stato, a me basta il colpo di scena.
Una valigetta Mosbach & Grüber similpelle nera modello 2131 dal contenuto misterioso è il quarto oggetto esposto in questo museo. «Una prova avevamo e l’abbiamo fatta esplodere».

5. Il corpo del poeta
Non importa fare il golpe, il colpo di stato non lo devi attuare, basta millantarlo. La pistola devi solo puntarla alle tempie di qualcuno se vuoi che questo ti ascolti, «tanto è scarica»; ma non devi mai sparare. Non è il proiettile ad ammazzare la gente, è il dubbio che un colpo in canna ci sia. Perché se quel colpo non c’è, ti rideranno dietro; ma se uccidi è una strage, un disastro. Scoppia la rivoluzione.
La politica non è altro che un delicatissimo equilibrio, un tenere tutti nel mirino, sul filo del rasoio. Come chiamarla? Strategia della tensione. Non si può fare il colpo di stato perché poi i comunisti fanno la rivoluzione. E i comunisti non possono andare al governo perché poi Junio Valerio Borghese aizza i fascisti, che fanno il colpo di stato.
No, il golpe non serve, non occorre arrivare a tanto: basta uccidere il poeta. Entrambe le orecchie tagliate, le costole rotte, il viso deformato. Chi lo troverà lo scambierà per un sacco di immondizia buttata in mezzo alla strada, un sacco di vestiti. Vestiti laceri, ma tutto sommato ordinari. Che strano, «uno come lui era più facile immaginarselo con le mutandine di seta». Eppure sulla camicia di Pelosi c’è appena qualche schizzo di sangue. Ma allora chi è stato?

È stato il Novecento, con i suoi padri e con i suoi figli. È stato il secolo breve, con le sue colpe e omissioni, l’ipocrisia borghese e il falso mito del progresso. È stato il secolo del Fascismo e il ritorno di quelli che il Poeta avrebbe definito «fascismi strisciati». Siamo stati noi.
«È il 1975, anno LIII dell’Era Fascista». Lo spettacolo è finito.
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[…] della produzione cinematografica di Pier Paolo Pasolini sono gli stessi che innervano l’intera sua opera letteraria. Se molto è stato detto sulla Trilogia della borgata, di minor fama godono invece i […]