
Quando c’era Pasolini – Pasolini Déluge #1
Nella marea di pubblicazioni e ripubblicazioni dedicate a Pasolini nell’anno del suo centenario (cui abbiamo dedicato lo Speciale Pasolini 100), pochi volumi possono vantare la qualità di scrittura che smuove il Quando c’era Pasolini di Fulvio Abbate, edito dalla Baldini+Castoldi. Scrittore palermitano classe 1956, Fulvio Abbate è tutt’altro che nuovo alle pubblicazioni pasoliniane: Quando c’era Pasolini è il suo quinto volume dedicato alla figura di P.P.P., dopo il romanzesco Oggi è un secolo, i divulgativi Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi e Pasolini raccontato a tutti, e C’era una volta Pier Paolo Pasolini. Quando c’era Pasolini è effettivamente un collage, “programmaticamente, perfino poeticamente caotico”, di queste precedenti pubblicazioni di Abbate su P.P.P., ma è connotato da uno sperimentalismo nella scrittura che gli consente di andare ben al di là della mera operazione editoriale che sfrutta un anniversario per dare nuovo lustro a vecchie pubblicazioni.

Cos’è Quando c’era Pasolini? Non è, è al tempo stesso è, un romanzo, una biografia, un’autobiografia, un reportage, una silloge di aneddoti sul cinema e la letteratura italiana degli ultimi settant’anni. Frutto, di fatto, di un trentennale confronto con l’opera e la figura di Pier Paolo Pasolini, Quando c’era Pasolini si pregia degli interventi di una ridda formidabile di testimoni, gran parte dei quali adesso morti: tra le pagine del libro di Abbate, soprattutto nella sua seconda parte, leggiamo l’autore stesso dialogare con figure quali quelle di Marco Pannella, Ettore Scola, Carlo Lizzani, Dario Bellezza, Adele Cambria e Laura Betti, volto per eccellenza del cinema pasoliniano, attrice premiata nel 1968 con la Coppa Volpi per Teorema, oltre che con Bernardo Bertolucci in persona, al quale Abbate aveva indirizzato una lettera aperta nei primi anni duemila chiedendogli, provocatoriamente e sinceramente, un terzo atto di Novecento.
Un’immagine ossessiona in modo particolare Quando c’era Pasolini, che pure è un libro ricco di ricorrenze, di ripetizione, di passaggi obbligati: Pino Pelosi, il presunto assassino di Pasolini, in tuta di lavoro, visto o immaginato da Abbate mentre spazza il terreno dell’Idroscalo di Ostia, impiegato a fare lavori socialmente utili esattamente lì dove il poeta era stato violentemente ucciso nella notte tra 1° e 2 novembre 1975. Quando c’era Pasolini non manca di addentrarsi nei retroscenismi sulla morte di P.P.P., dando pari ascolto, ma non pari attenzione, a versioni come quella di Laura Betti e di Sergio Citti, convinti che dietro la morte dell’amico e regista ci fosse un complotto politico legato anche ai contenuti di Salò e del romanzo postumo Petrolio, e ad affermazioni come quelle del poeta Dario Bellezza, una delle prime vittime dell’AIDS in Italia, che invece riconduceva tutto il delitto a un’avventura omosessuale andata male. Eppure, è proprio nella trattazione della figura di Pelosi che Quando c’era Pasolini di Abbate si sofferma, con sconcertante grazia, è sulla figura di Pelosi che si consumano le sue pagine migliori. Pelosi, che venne condannato per direttissima con l’accusa di omicidio “con concorso di ignoti”, e che a lungo continuò a ribadire di essere stato l’unico assassino di Pasolini, e di essersi difeso unicamente per difendere il suo ideale di virilità, dopo una specifica richiesta del poeta. Pelosi, che nell’ultima parte della sua vita cambiò completamente versione, in diretta televisiva, tirandosi quasi fuori dal delitto, e affermando che ad aver materialmente ucciso P.P.P. siano state tre persone a lui del tutto sconosciute, comparse all’improvviso all’Idroscalo dove lui e il poeta si erano appartati. Pelosi, con cui Abbate rivendica di aver avuto occasionali e a volte casuali dialoghi, che certo lo scrittore non difende, ma neppure pregiudizialmente condanna, tanto da definirlo “povero” per la sua prematura morte, di tumore, nell’estate del 2017.

Pelosi a parte, sono tanti altri i passaggi e i dialoghi del libro di Abbate che restano impressi, e che lo rendono una delle letture più interessanti e sorprendenti che si possano fare, in quest’anno inconsulto di Giubileo pasoliniano. Dall’un tempo viva voce di Ettore Scola apprendiamo che il regista aveva in mente di far realizzare a Pasolini un “prologo parlato” al suo Brutto, sporchi e cattivi, con la stessa logica di una prefazione a un libro che uno scrittore celebre può fare a un esordiente o un autore meno noto – prologo che Pasolini era disponibile a pronunciare, ma che non fece in tempo a dire, ucciso durante l’ultima settimana di riprese del film con Nino Manfredi. Non male anche lo scambio che si crea, a proposito della figura e del lascito di Pier Paolo Pasolini, tra Fulvio Abbate e Marco Pannella, storico leader dei Radicali: e Abbate non manca di evidenziare a più riprese come, nei dialoghi con le “giovani leve” della Sinistra italiana che P.P.P. volle avere negli ultimi anni e mesi della sua vita, fino al discorso pronunciato postumo al congresso dei radicali ai primi di novembre 1975, Pasolini avesse identificato con inaspettato spirito di osservazione due effettivi, futuri leader propugnatori di due idee molto diverse di sinistra, uno, appunto, Pannella, l’altro un giovanissimo Walter Veltroni. Quel che è più importante, soprattutto in un anno come il nostro così ricco di pubblicazioni, di eventi, di mostre, di convegni su P.P.P., Quando c’era Pasolini di Abbate non si fa problemi a denunciare la trasformazione e la banalizzazione della figura e del pensiero di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, trasformato, testuali parole, in una sorta di “Padre Pio della Sinistra italiana”.

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La ricerca della causa o delle cause che potrebbero essere plausibili della morte di P.P.P. forse resteranno sempre un mistero, come ebbe bene a dire in un’intervista che si può ritrovare su you tube la ristoratrice che per ultima lo vide nel suo locale la sera prima di essere ammazzato dove si era fermato a mangiare con un altro suo ragazzo di vita raccolto a piazza dei Cinquecento a Roma, secondo la ricostruzione delle cronache giornalistiche e giudiziarie, per una sua ennesima avventura, che però fu’ anche l’ultima.