
Fitzcarraldo: inseguire l’impossibile
Ci sono dei film dove tutto è annunciato sin dalle prime inquadrature, anche se non in modo chiaro, film dove temi e immagini si rincorrono per poi deflagrare. È il caso, mi pare, di Fitzcarraldo, uno dei più importanti film di Werner Herzog e dell’intero cinema europeo di quel periodo. Il film si apre con un paio di inquadrature sulla foresta amazzonica, con ampi movimenti orizzontali su un territorio che ci appare vasto e inaccessibile. Il verde della vegetazione si ammorbidisce nel pallore di una foschia che si fa anche schermo per il nostro sguardo. È una visione che ricorda sin troppo da vicino i proclami tardosettecenteschi sulla sensazione del sublime e che, volendo giocare alla citazione, potrebbe non essere così diversa da quella del celebre viandante di Friedrich. Nel frattempo, un cartello ci informa che questo spazio è chiamato, dagli abitanti nativi, “la terra dove Dio non ha concluso la sua creazione”. Subito dopo, con un cambio di registro vertiginoso, veniamo proiettati all’esterno di un teatro, dove vediamo arrivare – a bordo di un’imbarcazione meno che improvvisata – un uomo piuttosto trasandato e la sua compagna, che hanno attraversato il Rio delle Amazzoni per due giorni e due notti soltanto per vedere l’Ernani di Verdi.

Ecco che in pochi minuti Herzog ci mette di fronte al grande problema del film, l’immagine di un uomo (del quale il film porta d’altronde il nome) mosso unicamente dal proprio sogno visionario di costruire un teatro dell’opera nella giungla. Buona parte del fascino del personaggio gli è consegnata dalla straordinaria performance di Klaus Kinski, che qui come altrove (penso per esempio ad Aguirre o Nosferatu) sembra assorbire il mondo che si trova a dover interpretare. Il corpo di Fitzcarraldo è un corpo nevrotico, dal volto quasi spiritato, che sembra appartenere più al mondo delle allucinazioni che a quello materiale: più che muoversi, vagabonda nello spazio mosso solo dal proprio desiderio. È però nello sguardo di Fitzcarraldo che si concentra tutta la potenza del suo personaggio, la capacità di vedere ciò che gli altri non riescono neppure a sognare, a visualizzare in anticipo la vastità di un’opera che vive solo nella sua mente. Fitzcarraldo è diverso dagli altri europei presenti in Sudamerica: tanto loro ci sono mostrati pingui e unti, sudati e vagamente inquietanti, tanto Fitzcarraldo si staglia su di loro con un titanismo che, di nuovo, non può che apparire anacronisticamente romantico.

Fitzcarraldo abbandona così gli europei e decide di rivolgersi agli indios, gli unici che sembrano affascinati quanto lui dalla musica che continuamente fa loro ascoltare. In questo il personaggio di Herzog assomiglia più di quanto non si potrebbe pensare al Kurtz di Joseph Conrad, anche lui sprofondato in un mondo forse più primitivo ma non necessariamente peggiore. E anche Fitzcarraldo, come Kurtz, diventerà un essere fra l’umano e il divino per questi nativi, spingendo lo spettatore a chiedersi – nei momenti più tesi del film – fino a che punto è lecito spingere i propri sogni e la propria ambizione, soprattutto quando sono legati a forme di violenza e alla minaccia della morte.

Nel corso dell’impossibile traversata di Fitzcarraldo nei recessi più oscuri della foresta amazzonica, è lo stesso film a regalare allo spettatore un senso di sublimità che solo in pochi altri casi il cinema di Herzog è riuscito ad eguagliare. L’immagine dell’imbarcazione che risale il Rio delle Amazzoni (muovendosi al contrario, in un gesto di sfida alle leggi della natura e al buon senso degli uomini) in un silenzio irreale, interrotto solo dal risuonare della lirica riprodotta dal fonografo del protagonista, è senza dubbio uno dei brani più potenti ed evocativi dell’opera di Herzog.
C’è, infine, la questione del rapporto fra il personaggio di Fitzcarraldo e l’Herzog regista, che per quattro anni ha inseguito il sogno di un film impossibile, estenuante e colossale. Forse è per questo che, a quarant’anni dalla sua prima uscita, torniamo a guardare quelle immagini con lo stesso senso di ammirazione e di rapita fascinazione.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] dai registi «in culo al mondo» e risuonante di echi sia del cinema western sia di quello di Herzog (che a sua volta si rifà a Bruce Chatwin) e Olmi – così come della letteratura sudamericana di […]