
Re Granchio – La redenzione del Fuoco
«Luciano era un pazzo, Luciano era un nobile, Luciano era un santo, Luciano era un ubriacone».
Presentato al Festival di Cannes 2021 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio rappresenta l’apice cinematografico del tandem di registi composto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Approdato nelle sale italiane il 2 dicembre 2021, il film costituisce il terzo elemento di una trilogia scaturita dal fulcro geografico di Vejano, piccolo paese della Tuscia laziale, dalla mitologia storica del quale i due registi avevano già estratto gli impulsi narrativi delle precedenti fatiche filmiche – Belva Nera (2013) e Il Solengo (2015).

A instradare lo spettatore nel dedalo di mistificazioni e invenzioni che sottendono l’intera trama del film sono i cacciatori della provincia viterbese contemporanea, reali cantori di storie che sono successe ma non esistono più. I registi impalcano l’architettura di Re Granchio a partire da questa fittizia pretesa di realismo – che vede coinvolti nella realizzazione del film soltanto gli indigeni di Vejano, con l’eccezione del protagonista ed esordiente Gabriele Silli e della giovane Maria Alexandra Lungu –, realismo prontamente disatteso non appena il focus narrativo viene spostato verso un passato ottocentesco, in cui i costumi (per quanto curati) appaiono del tutto privi di un lavoro “filologico”. La scelta, però, è cosciente: la storia che viene narrata, caratterizzata da contorni gotico-favolistici, rifiuta di aderire a un modello prestabilito e si inscrive nel solco temporale dell’eternità, prescindendo dunque da implicazioni storiche precise. In questo modo, lo spirito filo-anarchico e libertario di Luciano trascende i rapporti di causa e effetto che strutturano la concatenazione degli avvenimenti – l’alcolismo; l’amore impossibile perché intralciato dal potere; la ribellione; la tragedia; il moto di redenzione oltreoceano – e diventa metafora di un ideale ribaltamento delle regole sulle quali si basa la comune vita sociale; un rifiuto violento e privo di contorni precisi.

Perché non posso sposare la donna che amo? Perché non posso attraversare il portone di legno che ho visto costruire con i miei occhi anni fa? Qual è il limite tra diritto e prevaricazione? Luciano è figlio di un dottore, è un benestante, ma nonostante i suoi privilegi soffre indicibilmente l’imposizione verticale e gerarchica di un dovere – e quindi beve, fino a straziarsi. In una cornice in cui il tempo non sembra smuovere neanche i fili d’erba, l’unica possibilità d’affermazione individuale per Luciano è un’infantile ribellione incendiaria, che in breve tempo si trasforma in tragedia. Dalle fiamme non cava niente, se non un corpo incenerito e una colpa da espiare: per un uomo che vive soltanto per non morire, in un permanente stato di fuga che da esistenziale si tramuta in pratico, l’esilio si configura come ultima possibilità di un nuovo essere e come obbligo di riscatto nei confronti di ciò che si è lasciato alle spalle.
Al consolidato modello epico del nostos, il protagonista contrappone un movimento verso l’esterno tipico degli schiumatori del mare canonizzati da Schmitt – d’altra parte, Luciano non ha una terra alla quale fare ritorno; deve anzi trovarne una che lo liberi dal senso di colpa – e abbandona l’Italia e il suo fiasco di vino, finché le possibilità di un nuovo continente non lo costringono a fare di nuovo i conti col suo passato criminoso. Non sembra un caso, infatti, che il percorso di redenzione di Luciano, uomo marchiato dalle fiamme, debba svolgersi nella Terra del Fuoco: è in Patagonia che ha luogo l’ultimo tentativo di auto-definizione del protagonista. In questo senso, la collaborazione transatlantica tra Zoppis (residente a Roma) e Rigo de Righi (residente a Buenos Aires) sfrutta a dovere il suo potenziale.

Nelle lande desolate di un territorio localizzato dai registi «in culo al mondo» e risuonante di echi sia del cinema western sia di quello di Herzog (che a sua volta si rifà a Bruce Chatwin) e Olmi – così come della letteratura sudamericana di Bolaño e Borges e dell’esperienza biografica di Dino Campana, modelli ai quali i registi ammettono d’ispirarsi – Luciano insegue la chimera di un tesoro che esiste soltanto nelle memorie degli Incas. Per raggiungerlo dovrà non solo sopravvivere alla minaccia anti-sociale dei marinai che hanno il suo stesso obiettivo, ma anche re-inventarsi come uomo di fede, inseguendo i lenti passi di un granchio con l’allucinata speranza di trasformarsi da alcolizzato in Re, e di moltiplicare l’oggetto totemico etrusco che aveva regalato, in un giorno lontano, a una donna importante, per trasformarlo in una moltitudine di tesori scintillanti. Il granchio, guida archetipica e simbolo cristologico di resurrezione – a causa della sua capacità innata di ritrovare sempre il proprio carapace – indirizza le speranze di rinascita di un uomo che ha disperatamente bisogno di una mappa per orientarsi tra la vita e la morte. Dimmelo tu, granchio: «Dove devo andare»?
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