
L’amica geniale e Mad Max: Fury Road
Dopo la messa in onda delle ultime due puntate della terza stagione de L’amica geniale (2018-in produzione), la ricercatrice e attivista femminista Isabella Pinto ha condiviso sul suo profilo Instagram un post carosello contenente due foto concettualmente speculari: Lenù costretta da Pietro a confessare il suo adulterio alle due figlie piccole e le riproduttrici o “levatrici” di Mad Max Fury Road (George Miller, 2015) legate con dei cavi a serbatoi di contenimento del latte estratto dai loro capezzoli. “Quale punto di vista ha il potere di rappresentare il mondo?” è la domanda provocatoria che fa da didascalia al parallelismo tra le due immagini, accuratamente scelte per documentarne l’impronta inequivocabilmente patriarcale. In entrambi i casi, le figure femminili presenti subiscono una forma di violenza: le levatrici vengono violentate nel corpo dagli strumenti tecnologici di estrazione delle risorse, Lenù e le sue figlie violentate psicologicamente da Pietro perché costrette a ferirsi. Lenù e le levatrici vengono violentate nel loro ruolo di donna, definite nel corso della loro vita da nessun altro sguardo che non fosse quello maschile, e ridotte quindi a identificarsi con la loro mera funzione riproduttrice.
Fin dal primo romanzo della tetralogia omonima di Elena Ferrante, “l’amica geniale” è stata manifesto di un prototipo di donna non maschile, di un’idea femminile di ridefinizione dei ruoli di gender in cui la donna non è solo figlia, moglie e madre ma figura protagonista, narratrice e pensatrice di un futuro rivoluzionario. Ma se i commenti del fandom, successivi alla messa in onda dell’ultimo episodio, sembrano non riconoscere in Lenù una figura meritevole di stima, e la vedono piuttosto come un’anti-donna colpevole nei confronti del suo inviolabile collocamento, forse qualcosa è andato storto.

Prodotta da Wildside, Fandango e The Apartment in collaborazione con Umedia e Mowe per Rai Fiction, HBO e TIMvision, la terza stagione racconta il “tempo di mezzo”, la prima fase dell’età adulta di Lila e Lenù, entrambe circoscritte in una nuova dimensione famigliare: Lila, suo figlio Gennaro e Enzo a Napoli, Lenù, suo marito Pietro e le sue due figlie Dede e Elsa a Firenze. Da figlie a madri e mogli, la nuova dimensione di collocamento all’interno dello schema patriarcale è a tutti gli effetti il motore di Storia di chi fugge e di chi resta, uno schema che, tanto a livello famigliare quanto a livello professionale (per Lila allo stabilimento Soccavo, per Lenù scrittrice e madre a tempo pieno), ripropone alle due ragazze una condizione di ciclica subalternanza. L’amicizia tra Lila e Lenù resta l’unico vero rapporto di dipendenza totalmente femminile, il motore del desiderio di emancipazione, della fuga, del ritorno, di ogni tentativo genuinamente libero di autoaffermazione.

La presenza fissa alla sceneggiatura di Elena Ferrante ha conferito alle prime due stagioni non solo la garanzia di fedeltà al testo scritto, ma una quota femminile non irrilevante nella direzione della serie. Nella terza stagione la regia passa nelle mani di Daniele Luchetti (Lacci, 2020) mentre Saverio Costanzo, ideatore e regista della prima e seconda stagione, collabora alla sceneggiatura insieme alla scrittrice. Il cambio di regia risulta molto interessante, soprattutto nel merito della direzione degli attori. Gaia Girace e Margherita Mazzucco (rispettivamente Lila e Lenù) sono decisamente cresciute come attrici e riescono a vestire i panni delle protagoniste senza vedervisi costrette. Una scelta azzardata, oltretutto, quella di non affidarsi ad attrici più adulte per l’interpretazione di personaggi ormai invecchiati più di 10 anni, ma una scelta fortunata: la paradossale rappresentazione di due madri-bambine, mogli-bambine, non fa altro che conferire maggior autenticità a un dato di fatto, Lenù e Lila erano madri e mogli molto giovani, o meglio, ragazzine costrette a diventare adulte troppo in fretta.
L’intero universo seriale de L’Amica geniale assume sfumature diverse sotto la guida di Luchetti, una riscrittura degli ambienti e del ritmo della messa in scena che è in tutto e per tutto una riscrittura dello sguardo. Costanzo aveva adottato un punto di vista autoriale semi-oggettivo nei confronti delle vite di Lila e Lenù, o meglio, la prospettiva del regista non coincideva con gli occhi di Lila né con quelli di Lenù ma si trattava di un punto di vista comunque interno al rione, forse lo sguardo del rione stesso nella sua dimensione di budello a mille braccia e mille occhi. La bravura di Costanzo gli aveva permesso di rappresentare dunque, facendolo coincidere con l’occhio meccanico, il punto di vista personale e impersonale del “narratore imprevisto”, di una qualsiasi bambina degli anni ’50 o di una qualsiasi adolescente negli anni ’60, di una Lenù che è narratrice ma non egoriferita, e acquisisce senso solo nel rapporto e nel confronto con Lila.

Lo sguardo registico di Luchetti è invece uno sguardo soggettivo, e in quanto soggettivo si tratta di uno sguardo maschile. La serie acquisisce un ritmo diverso, se vogliamo una dinamicità maggiore – complice la densissima sequela di fatti storici di cui abbonda il terzo volume e la partecipazione inevitabile dei personaggi alla stagione rivoluzionaria italiana. Le sequenze perdono l’impronta magico-realista di Costanzo e in parte, quindi, quella forma di mediazione fantasmatica e inspiegabile che sembrava rendere conto dei destini alienanti toccati a Lila e Lenù. Luchetti, invece, mette in scena la consapevolezza adulta della realtà spazzando via ogni residuo incantato o stregato dell’auto-narrazione infantile e ripristina un rapporto di totale coincidenza tra i suoi protagonisti e le loro scelte. La bellissima scena del pranzo con i Solara non ha più nulla del fiabesco perturbante che circondava la figura di Don Achille: Emanuela Solara e Michele sono in carne e ossa tremendi nella loro figura, dirottando la paura e il pericolo del rione sui binari del gangster movie moderno.
È la storyline di Elena quella maggiormente penalizzata dall’influenza di uno sguardo inconsapevolmente patriarcale. Il lettore segue dal matrimonio, passando per tutti gli eventi storici iscritti negli anni di Piombo, tutto il processo di ricerca identitaria nazionale che si specchia nella ricerca della propria identità da parte di Lenù, il progressivo distanziamento dal prototipo di donna “fabbricata dagli uomini” (il titolo del suo saggio) e l’inversione di rotta della sua vita sentimentale. Lo spettatore seriale invece, dopo sei buoni episodi, assiste alla pura mise en scène di un tradimento come fatto estemporaneo, la distruzione irragionevole della propria famiglia per colpa di un’ossessione infantile.

Quello a cui assistiamo negli ultimi due episodi è l’adozione dei topoi dell’Harmony per rappresentare la violazione femminile dei codici patriarcali. Pietro Airota viene assolto dalle sue colpe grazie al potere della finzione: perfino di fronte alla crudele confessione imposta alla moglie e alle figlie, il campo e controcampo ammicca al personaggio maschile e lo libera dalla sua responsabilità di co-attore della tragedia. E su internet si compie la tragedia parallela: l’ammontare dei commenti dispregiativi nei confronti di Elena rappresentano il fallimento della sua rappresentazione, la manipolazione maschile dell’amica geniale che ora sembra solo “cretina”, come Lila dirà durante la loro ultima telefonata. Ma Lila ha motivi differenti per criticare la sua amica, il fandom ha solo le discutibili scene di sesso con Nino Sarratore.
In quanto serie, L’amica geniale non fa che seguire le orme del caso letterario di riferimento, diventando a tutti gli effetti uno dei prodotti seriali italiani più ambiziosi degli ultimi anni e un caso mediatico di particolare impatto “pop” sugli spettatori italiani, lettori o meno del romanzo. Il “caso” de L’Amica geniale acquisisce quindi un certo grado di responsabilità artistica: la “responsabilità della rappresentazione”, di restituire degnamente non solo le pagine della Ferrante ma soprattutto di non ignorare la contemporaneità, l’orizzonte temporale dello spettatore che alla storia di Lila e Lenù inevitabilmente conferirà un senso personale e collettivo. E se la contemporaneità si sta occupando con urgenza del femminismo in quanto rivoluzione necessaria, bisogna fare attenzione a come si rappresentano le donne di Ferrante, una scrittrice contemporanea che, per certo, racconta del prototipo di donna di un passato recente per chiamare il presente a risponderne.
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