
Un requiem per un pianeta inabitabile – L’Apocalisse secondo Herzog
Lektionen in Finsternis, distribuito in Italia sotto il titolo altrettanto evocativo di Apocalisse nel deserto, è uno dei documentari di Werner Herzog più sviluppati e ambiziosi dal punto di vista metalinguistico. Presentato al Festival di Berlino del 1992, Apocalisse nel deserto mostrava immagini della concomitante Guerra del Golfo partendo da una prospettiva particolarmente aerea e straniante – una sorta di aggiornamento, sotto diversi punti di vista, di Fata Morgana, uno dei primissimi e più irriducibili esperimenti di Herzog col linguaggio del documentario. Apocalisse nel deserto, o Lezioni di tenebra come sarebbe la traduzione fedele del titolo originale, racconta infatti la Guerra del Golfo soffermandosi con particolare enfasi sui pozzi di petrolio dati alle fiamme dalle truppe irachene in ritirata. I voice-over assumono uno sguardo quasi alieno sulle immagini che si intervallano nei 50 minuti di film, senza alcuna retorica né bellicista né pacifista, come se distaccati osservatori extraterrestri scrutassero le disgrazie dell’uomo.

La guerra del Golfo viene ricordata anche per essere stata la prima guerra mediatica della storia, o, perlomeno, la prima guerra trasmessa in diretta nelle case di spettatori di tutto il mondo. Colpito da quanto vedeva nei telegiornali nei primissimi anni Novanta, Herzog decise di recarsi in Kuwait per registrare dal vivo un evento che a tutti gli effetti sembrava destinato a cambiare la percezione contemporanea della guerra, appoggiandosi anche alla troupe, già presente sul territorio, del documentarista britannico Paul Beriff. A un certo punto il ministero dell’Informazione fece consegnare ad Herzog una lettera che gli augurava buon viaggio, specificando l’orario di partenza del volo prenotato d’ufficio per lui: temendo che se la permanenza nel Paese si fosse protratta il governo del Kuwait avrebbe finito per confiscargli tutto il materiale, Herzog pensò bene di andarsene seduta stante, terminando così le riprese del progetto. Quanto aveva raccolto fino a quel momento bastò nondimeno ad Herzog per realizzare una delle più rigorose riflessioni sull’ambiguità estetica e morale della guerra, densa di istintivi spaccati semiotici sui codici del documentario e i loro limiti.

Apocalisse nel deserto infatti flirta coi limiti del linguaggio documentaristico sin dalla frase posta in esergo all’opera, misattribuita al grande filosofo giansenista Blaise Pascal: “il crollo delle galassie avverrà con la stessa, grandiosa bellezza della creazione”. Una decina danni dopo nel celebre libro-intervista Incontri alla fine del mondo Herzog confesso ciò che lo aveva spinto a inventarsi questa apocrifo. “Forse sembra una frase di Pascal, ma in realtà sono stato io a coniarla. Mi piace fare cose del genere perché io sono un narratore, né più né meno, non un tradizionale regista di ‘documentari’”. Che quella frase sia un apocrifo poco importa agli occhi di Herzog: “gli spettatori, siano essi al corrente o meno che la citazione è un falso, vengono subito a trovarsi nel regno della poesia, che tocca inevitabilmente una corda più profonda del mero reportage. Procedo in questo modo con orgoglio, fiducioso di non manipolare in alcun modo il pubblico. Pascal stesso non avrebbe potuto dirlo meglio!”, era la sua ottimistica conclusione.

La citazione di Pascal era dunque inventata di sana pianta, ma non c’è dubbio che si prestasse fortemente al tono e alla prospettiva adottata dal documentario. Non per nulla, dopo la proiezione del film alla Berlinale del 1992, Herzog fu oggetto di una dura contestazione da parte del pubblico, e piovvero su di lui non poche accuse di aver voluto “estetizzare l’orrore”. La sua risposta fu degnamente herzoghiana: “il signor Dante ha fatto lo stesso nel suo Inferno e il signor Goya l’ha fatto nei suoi quadri, come anche Bruegel e Bosch”. La critica ricevuta da Herzog era moralistica eppure pertinente, posto che fisiologicamente ogni opera d’arte proceda per estetizzazioni: molto più che un reportage di denuncia o uno spaccato storico sulla guerra del Golfo, Apocalisse nel deserto rappresentava una riflessione in chiave tragica sul carattere belligerante dell’esistenza umana tout court (exsistentia dal greco στασις-“lotta”, se vogliamo), uno sguardo volutamente extraterrestre sulla dimensione polemica e catastrofica della vita sulla Terra in generale. “Non c’era bisogno di nominare Saddam Hussein e il paese che ha attaccato”, avrebbe spiegato il cineasta tedesco in Incontri alla fine del mondo. “Apocalisse nel deserto trascende tanto il piano dell’informazione d’attualità quanto quello della particolarità del conflitto. Potrebbe trattarsi di qualsiasi guerra in qualsiasi paese”. È questa appunto la cifra stilistica che lo contraddistingue, la portata tragica, universalistica e mediteggiante che conferisce al film il suo fascino ma anche il suo carattere perturbante.

Peraltro, Herzog ha definito Apocalisse nel deserto come un film di fantascienza, perché “non c’è neppure un singolo fotogramma che possa essere ricondotto immediatamente al nostro pianeta, eppure noi sappiamo che deve essere stato girato qui. Il film si svolge come se l’intero pianeta fosse in fiamme e, dal momento che si sente musica per tutto il film, io definisco Apocalisse nel deserto [come] un requiem per un pianeta inabitabile”. Non per nulla una dozzina d’anni dopo Herzog avrebbe offerto al pubblico un mockumentary fantascientifico con tutti i crismi quale fu L’ignoto spazio profondo: ma Apocalisse nel deserto sì pregiava già, e forse più efficacemente, dell’estraneità radicale nello sguardo della macchina da presa raramente raggiunta dal cinema. “L’apocalisse è essenzialmente una contemplazione”, scrisse una volta il filosofo francese Jacques Derrida. Apocalisse nel deserto, o Lezioni di tenebra a dir si voglia, di questa frase è una lampante dimostrazione.
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