
Family Romance, LLC – Robot e illusioni nel Giappone di Herzog
“Se la nostra vita non svanisse come la rugiada sulle tombe di Adashino […], come la vita sarebbe incapace di commuoverci! È la natura effimera delle cose a renderle meravigliose.” Le parole del monaco Yoshida Kenko (1283-1352) sono forse le più indicate a riassumere la cultura giapponese, storicamente votata all’esaltazione poetica della solitudine e della precarietà, tanto da dedicare persino un genere letterario ai “versi in punto di morte” (jisei-ei 辞世詠).
Per questo sembra paradossale che proprio in Giappone si moltiplichino i servizi di noleggio familiare, aziende che contrastano il senso diffuso di precarietà e solitudine offrendo attori che interpretano il ruolo di amici, confidenti, familiari e persino cari estinti. Family Romance è tra le compagnie più celebri, tanto che il patron Yuichi Ishii era già apparso nel 2018 in una puntata del “Conan O’Brien Show.”

Munito appena di uno smartphone e una troupe ultra-light, Herzog realizza con Family Romance, LLC un lavoro di non-fiction agile e incisivo. La trama principale vede Yuichi presentarsi alla dodicenne Mahiro come il padre che non ha mai conosciuto, in una progressiva sfocatura del confine che separa realtà e finzione. Infatti, in maniera del tutto paradossale gli affetti simulati finiscono per produrre legami autentici, tanto che l’amore della finta figlia e le avances della finta moglie inducono Yuichi a lasciare l’incarico. Ma le esperienze simulate non si limitano alle relazioni parentali: c’è chi noleggia la vincita di un premio milionario, chi uno stuolo di paparazzi, chi un capro espiatorio per le ramanzine sul posto di lavoro. L’amalgama di realtà e finzione si addensa a tal punto che viene da chiedersi se anche le frequenti confidenze di Yuichi con un vecchio amico siano la testimonianza di un rapporto autentico o un’ulteriore messinscena.
La filmografia di Herzog ci ha abituato a un regista-esploratore, capace di avventurose scorribande nell’Amazzonia vergine e nel Kuwait devastato dalla guerra, ma lo sfondo di Family Romance, LLC non è tanto lo spazio pulsante e affollato di Tokyo quanto il deserto interiore della solitudine, condizione endemica di una società scandita da un minuzioso almanacco di formalità e pervasa in maniera crescente da robot e social media. In questo deserto, proprio la tecnologia costituisce il grande miraggio consolatorio, come ha suggerito lo stesso Herzog in una recente intervista al Biografilm Festival di Bologna: “Accadrà in Italia, negli Stati Uniti, in Germania, in tutte le società che sono altamente tecnologiche, e molto dipende dal cambiamento della popolazione dei nostri paesi, che tende a diventare sempre più anziana e, quindi, sempre più sola.”

Herzog ambisce dunque a un’esplorazione del futuro, quel futuro che Tarkovskij già in Solaris (1972) faceva coincidere con le metropoli vertiginose e gli intricati snodi stradali del Giappone. In questo futuro che ama mascherarsi con il proprio riflesso virtuale, la menzogna si fa trama costitutiva della realtà, come riconosce candidamente Yuichi parlando alla madre del suo rapporto con Mahiro: “I’m lying to Mahiro. She’s also lying to me. We’re both lying to each other.” Ma non c’è giudizio né critica: fedele al suo sguardo da naturalista Herzog dirige per sottrazione, lasciando alla microcamera dello smartphone il compito di riflettere passivamente la successione degli eventi in una cinematografia che possiede la minacciosa limpidezza degli ascensori, dei saloni di auto usate.
Nell’ambiente intimista, quasi non filtrato, di Family Romance, LLC, le illusioni fluttuano nitide e innocue come i pesci meccanici del Robot Hotel. Create per migliorare la vita delle persone, finiscono in realtà per imitarla, plagiarla, colonizzarla, tanto che lo stesso Yuichi nel finale si chiede se i propri familiari siano attori presi a nolo. Dal deserto geografico di Fata Morgana (1971) a quello psicologico di Family Romance, LLC, il cinema di Herzog si conferma cinema di frontiera, avamposto proteso verso un futuro già presente che oppone all’ubiquità della sofferenza l’utopia di non doverla conoscere.
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