
Sam Peckinpah e Robert Altman – La ballata di un mondo scomparso
Due amici si rincontrano nella loro cittadina natale, in Texas, e decidono di andare all’ultima proiezione della sala locale, che sta per chiudere i battenti. Sullo schermo del piccolo cinema provinciale si staglia una delle più potenti panoramiche della storia della settima arte: John Wayne scruta la vallata, mentre la cinepresa copre a 180° il canyon americano e ritorna sul primo piano dell’attore, che esclama «take’em to Missouri Matt!»; i compagni si esaltano e urlano a squarciagola mentre una linea melodica incalzante accompagna il rumore degli zoccoli verso la linea dell’orizzonte. Ad un tratto però la pellicola finisce e cala il silenzio. I due amici si scambiano uno sguardo d’assenso e un sorriso di spensierata indifferenza, ma nulla di più.
Questa breve sequenza meta discorsiva appartiene a L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) diretto dal compianto Peter Bogdanovich, che scelse le immagini de Il fiume rosso (Red River, 1948) di Howard Hawks per celebrare con malinconia la fine di un’epoca. L’affievolirsi della magia della sala genera una sensazione di solitudine e vuoto, ma insieme pone al centro un grande quesito su un genere ormai destinato a fare i conti con la propria fine: di che cosa parliamo quando parliamo di cinema Western?

La scelta di richiamare il film di Bogdanovich non è casuale, dal momento che proprio in quegli anni – periodo di grande sperimentazione da parte dei registi della Nuova Hollywood – si assiste ad un ripensamento dei codici narrativi di genere, in particolare del Western. I suoi eroi sono ormai consapevoli di aver raggiunto l’agognata frontiera, di essere arrivati talmente ad ovest da sprofondare nell’oceano. In particolare, è possibile individuare due film appartenenti ad autori fondamentali del nuovo cinema hollywoodiano: si tratta dell’ultimo Western di Peckinpah (se non ultimo Western in assoluto) Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973) e l’ennesimo capolavoro di Robert Altman, Buffalo Bill e gli Indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, 1975). Questi due film offrono dei grandi spunti di riflessione sulla morte del western dal momento che entrambi, attraverso stili differenti, si pongono come elegie del genere.

PAT GARRETT E BILLY KID (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973).
Sam Peckinpah, così come molti altri registi alle prese con la rivisitazione western, decide di ripartire dalle figure simbolo della conquista del West. In questo caso, il suo ultimo film di genere prende in causa una delle coppie (o meglio, dei doppi) più conosciute della leggenda della frontiera: Pat Garrett (James Coburn), ora uomo di legge ora uomo malinconico, alle prese con i ricordi di un’amicizia ormai perduta con il temuto fuorilegge Billy the Kid (Kris Kristoffersson).
L’opera di Peckinpah differisce dalle innumerevoli rivisitazioni della loro tormentata amicizia: in questo caso non è la morale eroica a spingere Garrett a difendere la legge, ma al contrario viene proposto un complesso rapporto di amore e odio tra le due parti, sfociando in un’approfondita riflessione sulla dicotomia che ha, da sempre, governato il genere. Un primo assaggio di questa dicotomia è visibilmente legato al personaggio di Garrett: un tempo cacciatore di bisonti e compagno di Billy nelle sue scorribande, ora sceriffo della contea di Lincoln. Un uomo scisso tra l’ordine e il caos.

Vi è poi la scissione tra due età del mondo americano: l’epoca moderna e un tempo perduto, autentico, composto da figure leggendarie come quella incarnata da Billy. Egli è costretto a cedere il passo ad un’età nuova, e sopprime il mito in funzione di una tanto agognata stabilità morale – elemento ribadito anche da uno scambio di battute tra i due in cui Pat afferma: “I tempi sono cambiati”, e il Kid risponde: “I tempi cambiano, ma non io”.
Il genere Western è sempre stato permeato da istanze di morte, dalla sensazione di una fine imminente che incombe sui personaggi. In questo film, Peckinpah non opta per proseguire la scia funerea del genere, ma anzi vuole mettere un punto definitivo ad una tradizione ormai inefficace, forse inattuale.

Nel farlo, però, sigilla uno dei momenti più alti nella storia del genere: oltre ad essere un’opera “figlia dei tempi” – sono molto frequenti i riferimenti alla controcultura di fine anni Sessanta, con tanto di colonna sonora curata da Bob Dylan – figura, nella sequenza finale dello scontro definitivo, una vera e propria elegia di un tempo perduto. Pat Garrett è costretto ad uccidere Billy (quindi sè stesso) sparandogli a sangue freddo, per poi frantumare con un colpo di pistola il suo riflesso allo specchio.
Per non parlare del piccolo cameo dello stesso Peckinpah nel ruolo di un becchino poco prima della scena del delitto – rimossa poi nelle versioni successive al 1988 – in cui, rivolgendosi a Garrett afferma: “ora metterò tutto ciò che possiedo proprio qui (indicando una bara), seppellirò tutto, e lascerò questo territorio per sempre”.
BUFFALO BILL E GLI INDIANI (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, 1975)
L’opera di Altman si concentra sulla figura di Buffalo Bill, l’incarnazione più pura di tutta la mitologia del West. Il suo film sembra privilegiare uno sguardo critico dai toni documentaristici, volto a indagare nl’uomo William Cody (interpretato da un ottimo Paul Newman) più che la sua leggenda. La cinepresa indugia lentamente, alternando lente carrellate sui volti e panoramiche circoscritte che illustrano delicatamente l’allestimento del Wild West Show – uno spettacolo creato da Cody col fine di pubblicizzare la sua figura e le sue avventure nel selvaggio West.

Il tono della pellicola è, come nel caso del film di Peckinpah, molto intimista ma con una forte propensione ad indagare i fantasmi del cacciatore di bufali: in particolare è estremamente rilevante il suo rapporto con l’alter-ego Toro Seduto (Frank Kaquitts), un’altra forte personalità, un altro doppio che rivela l’ambiguità della leggenda di Cody. Niente e nessuno possiede un’aurea mistica, a partire dal luogo volutamente ristretto rispetto alla tradizione del genere di mostrare l’immensità del deserto. La polvere accoglie solamente la catabasi spirituale e mentale di un uomo inventato (letteralmente) dallo scrittore Ned Buntline (Burt Lancaster) – come si evince da una sua battuta del film: “Lieto di averti inventato Bill”.

Ogni elemento del film è privato di qualsiasi portata leggendaria per lasciare spazio alla nuda ambiguità dei fatti: i nativi, da sempre accostati alla figura di Cody come uomini da lui rispettati e ammirati, contrastano con la loro compostezza e la loro superiorità spirituale il caos della futilità commerciale dello spettacolo. Contrasto simbolicamente rappresentato dall’elemento del fiume che divide l’accampamento indiano da quello di Cody, insuperabile per i bianchi ma non per la tribù di Toro seduto, a sottolineare l’abisso metafisico che divide i due popoli.
A questo proposito è significativa la magistrale sequenza finale in cui Bill affronta in un monologo Toro Seduto, apparentemente frutto di una sua allucinazione, dove il silenzio del capo indiano annulla gli sfoghi capricciosi di un ormai stanco e grottesco cowboy. Tutto inutile, come dimostra l’ultima scena del film, in cui Buffalo Bill – dopo aver vinto un fittizio scontro a mani nude con l’indiano – si erge sul suo corpo caduto a terra, mentre uno zoom ci mostra progressivamente Cody in primissimo piano, con i suoi occhi di ghiaccio che scrutano il pubblico del suo show. Occhi senz’anima, abbagliati dal successo della sua figura, ma colmi della dolorosa consapevolezza di non essere mai realmente esistito.


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