
«Is it rolling, Bob?» – Bob Dylan e il cinema
Ci sono pochi modi per decretare quando una persona si possa indiscutibilmente ritenere un pilastro della cultura occidentale; penso però che l’aver vinto, in una sola vita, tanto un premio Oscar quanto un Nobel possa rientrare tra questi. Capitò a Bernard Shaw nella prima metà del secolo scorso ed è successo, tra il 2001 e il 2016, a Bob Dylan che insieme a questi può vantare (ma sembra non aver intenzione di farlo) innumerevoli altri riconoscimenti, ognuno di essi traccia indelebile di un cammino fatto rivoluzionando il linguaggio e la voce di più generazioni. Questo cammino non è solo musicale, ma passa per tutti i canali della cultura contemporanea, ed è fatto soprattutto di immagini; tra di esse non manca il cinema, che Bob Dylan ha frequentato più o meno consapevolmente diverse volte e che si fa tassello di una visione del mondo stratificata e densa, dove l’immagine, anche nell’audiovisivo, è sempre e comunque un tentativo di fuggire dalla figuralità, dalla testimonianza, dall’evidenza.
Nel ripercorrere il rapporto tra Bob Dylan e l’audiovisivo sono diverse le strade che si possono seguire, cercando innanzitutto quei rari momenti in cui il cinema si è immerso nel fiume linguistico delle canzoni del menestrello di Duluth. Poche volte è infatti capitato che nelle centinaia di composizioni Dylan abbia deciso di richiamare l’attenzione al grande schermo o ai suoi protagonisti: una breve sfilata di dive si affaccia nella scanzonata lirica di I Shall be Free (1963), Clark Gable si inginocchia davanti alla destinataria di Don’t Fall Apart on Me Tonight (1983) e un film con Gregory Peck viene ricordato, in lontananza, nelle prime parole di Brownsville Girl (1986); probabilmente ci sono altri piccoli cenni qua e là, specie nelle produzioni recenti, ma non più di una manciata (i più attenti citerebbero almeno Talkin’ John Birch Paranoid Blues, Tempest e alcuni momenti dell’ultimo disco), poiché l’appropriazione di immagini da parte di Dylan non è quasi mai letterale, ma letteraria, all’insegna di un furto sottile, linguistico, materico.
Perché se è vero che il cinema è pressoché assente nella sostanza dell’opera musicale di Bob Dylan, questo non si può dire nella sua forma: la poesia dylaniana è una poesia che muove attraverso immagini, in montaggi analitici che ricalcano le teorie cinematografiche più elaborate, costruendo visioni chirurgicamente ritagliate attraverso la carne del mondo che le ha generate. Dalle esperienze surreali della trilogia elettrica di metà anni ’60, fino alle sceneggiature attente e “di ferro” degli anni ’70: dove Highway 61 Revisited, Visions of Johanna e Desolation Row scagliano l’ascoltatore in un universo simbolico denso di sovrapposizioni di senso e contrasti sinestetici, Hurricane, Romance in Durango e Isis costruiscono racconti strutturati e coerenti, conditi da stilemi di genere, pronti a essere messi in scena.
Proprio questa vicinanza formale tra l’immagine visiva e l’immagine parlata ha permesso a Dylan di dar vita al primo videoclip della Storia della musica – per Subterranean Homesick Blues (1965) – in cui il visivo restituisce un non detto che avviene lungo la profondità di campo, nell’angolo in basso a sinistra, dove un poeta e un beatnik dialogano mentre un fiume di parole piove dalle mani di Dylan stesso. Da allora i pochi videoclip di Bob Dylan diventano gemme nascoste di cinematografia contemporanea, sfiorando il surreale – sfido chiunque a spiegarmi cosa vediamo nel video di Tight Connection to My Heart (1985) – e raggiungendo la mimesi di genere alle soglie del postmoderno con gli ultimi prodotti. La tendenza sfuggente dell’immagine dylaniana diventa terreno fertile per la cinematografia a lui dedicata.
Si deve infatti a D. A. Pennebaker il primo sguardo di una macchina da presa che porta Dylan su un grande schermo: Dont Look Back è il docufilm che segue passo passo il tour di Bob del ’65 in Regno Unito, a cavallo della sua svolta elettrica, inaugurando un modo di osservare l’artista nei ritagli degli spettacoli, in un costante dietro: le quinte, i giornali, gli occhiali da sole, il vetro di una macchina, gli amici. Tessto dialettico per eccellenza, Dont Look Back diventa un oggetto di culto irripetibile, in cui il bianco e nero si scontra coi colori del gemello scartato (diventato poi Eat the Document, ufficialmente inedito), dove le performance si nascondono lasciando spazio a momenti di improbabile umanità, di feroce sincerità, dove la recitazione – non programmatica, ma endemica per il Bob dell’epoca – è l’unica forma di onestà possibile.
Dopo Pennebaker, il più illustre documentarista ad aver restituito all’audiovisivo il cinema potenziale della vita di Dylan è Martin Scorsese, con la forza di coinvolgere Bob stesso, spingendolo a raccontarsi tra verità e menzogna in No Direction Home (2005) e nel recente Rolling Thunder Revue (2019), una sorta di dittico in grado di invertire i linguaggi narrativi dei percorsi musicali raccontati, regalando linearità all’immaginario surreale degli anni ’60 e scavando nell’immaginifico spirituale alla base dei racconti degli anni ’70. Gli occhi di ghiaccio di un Dylan mai fermo e mai nostalgico bucano lo schermo di Scorsese raccontando una visione che si dimostra sempre più irrapresentabile.

E irrapresentabile sembra la figura di Dylan se non in assenza, se non per sottrazione: in attesa che Timothée Chalamet si immerga nei panni del giovane Bob newyorkese – e ormai rassegnati dalla mancata promessa di Guadagnino – ci resta la figura sfuggente tra gli scarti dei personaggi che si aggirano per I’m Not There, il film anti-biografico di Todd Haynes del 2007, e la coda fuori scena che i Coen sfumano sui titoli di Inside Llewyn Davies, che di Dylan ricostruisce le condizioni. Molto più inaspettatamente umane le sue rappresentazioni televisive, da I Simpson a Dharma e Greg, senza contare le diverse ospitate da Letterman, tutto a “risarcirci” la perdita di The Madhouse on Castle Street, episodio di uno show BBC del ’63 con Bob protagonista.
Ma Dylan il cinema l’ha anche letteralmente fatto – non solo facendo capolino in centinaia di colonne sonore – fin da Pat Garrett & Billy the Kid (1973) in cui risulta attore e compositore di tutta la colonna sonora, passando per prodotti improbabili come Renaldo & Clara (1978) – di cui ha curato regia, scrittura e interpretazione – e Hearts of Fire (1987) – dove è interprete immerso in un’irresistibile patina trash – arrivando all’Oscar per Things Have Changed, canzone portante di Wonder Boys, e a quel gioiello di sperimentazione di teatro audiovisivo dell’assurdo che è Masked and Anonymous, dove Bob racconta sé stesso interpretando una propria visione apocalittica dello show business e del suo lavoro: Dylan nel film è Jack Fate, artista vecchio e dimenticato, e i suoi musicisti interpretano la sua tribute band in un cortocircuito meta-artistico dall’improbabile efficacia.
L’immagine insegue da sempre Bob Dylan e Bob Dylan da sempre vi sfugge, appropriandosene in modi che trascendono ogni possibile idea di poesia, trasformandola in unica possibilità di intendere il linguaggio americano, perché di questo sempre e comunque si tratta: Bob Dylan è l’America e il linguaggio americano è fatto di immagini che si radicano in una mitologia tanto giovane quanto antiche ne sono le fonti, come una versione cinematografica dell’intera Storia del mondo che Dylan continua ad adattare attraverso la sua voce e il suo sguardo, irrapresentabile, inafferrabile, eppure tremendamente fotogenico.
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[…] i riferimenti alla controcultura di fine anni Sessanta, con tanto di colonna sonora curata da Bob Dylan – figura, nella sequenza finale dello scontro definitivo, una vera e propria elegia di un tempo […]
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