
Il fascino indiscreto del cinema in pellicola | Alle Ortiche Festival 2020
Dal 24 luglio al 2 agosto si è svolto a Genova Alle Ortiche Festival, che ha unito il cinema in pellicola con una serie di incontri letterari nel curioso e accogliente scenario delle Serre di San Nicola, di cui abbiamo parlato qui. Il Festival, organizzato dal Laboratorio Probabile Bellamy e dall’Associazione Alle Ortiche, alla sua seconda edizione, ha riscosso anche quest’anno un grande successo.
La peculiarità del festival è stata la proiezione in pellicola di tre film: La rabbia giovane, lungometraggio d’esordio di Terrence Malick, del 1973; Play Time, grandiosa e geniale messinscena umoristica di Jacques Tati, del 1967 e Stalker, opera fra le più celebri del regista sovietico Andrej Tarkovskij, datata 1979.

Pellicola e digitale
Siamo ormai disabituati all’esperienza del cinema in pellicola: l’Italia si è definitivamente adattata alla nuova tecnologia di proiezione solo a partire dal 2014, benché il processo di digitalizzazione fosse già in corso dal decennio precedente.
La tecnica precedente – mezzo elevato a essenza stessa del cinema – mantiene però il suo fascino indiscutibile: sono infatti molti i registi che continuano a girare le loro opere in pellicola. Per fare qualche esempio, potremmo citare il caso di Quentin Tarantino, Cristopher Nolan e Nicholas Winding Refn, da sempre strenui difensori della tradizione.
Invero, anche negli ultimi anni, alcuni eventi e rassegne hanno promosso la proiezione di lungometraggi in pellicola – ad esempio, in pochissimi cinema, tra cui il colossale multisala Arcadia di Melzo, si è potuto vedere The Hateful Eight nel suo formato originale, il 70 millimetri – ma la tendenza oggettiva a cui si assiste è quella di un ormai compiuto passaggio al digitale.
Il 70 millimetri – che permette una definizione sei volte superiore a quella del ben più comune 35 millimetri – è proprio il formato usato da Tati nel suo Play Time: ciò gli permise, tra l’altro, di rendere al meglio molti giochi sonori attraverso l’uso di tutte le sei piste magnetiche che tale pellicola offre.
La perfetta imperfezione
Nel particolare contesto che stiamo descrivendo, quello di un festival di dimensioni indipendenti e completamente autofinanziato, le copie dei film proposti, pur in ottime condizioni, presentavano tutte i segni del tempo: ogni piccola imperfezione dovuta all’invecchiamento testimonia della vita della pellicola, segno tanto storico quanto artistico. Ciò contribuisce a creare un’atmosfera velata di nostalgia e reviviscenza, che difficilmente lascia indifferente lo spettatore.
Tutto, dalla grana più o meno marcata della pellicola, alla profondità del colore, agli inevitabili minimi aggiustamenti di messa a fuoco in fase di proiezione, fino ad arrivare al sempre presente, e subito evocativo, rumore della bobina, immerge i presenti in un’esperienza che potremmo definire tanto rituale quanto troppo facilmente abbandonata. Gli stessi intervalli, realmente necessari al cambio del rullo proiettato, restituiscono allo spettatore l’esperienza di un tempo cronologico ben lontano dalla distratta frenesia “usa e getta”, cui la contemporaneità ci ha ormai ampiamente assuefatti.
Ogni particolare tecnico, trattato con la pazienza di un antico artigiano, rende necessaria un’azione umana che sappia attendere senza la violenza del “tutto e subito”. Così, una breve pausa a sfondo nero segna il primo passaggio al colore in Stalker, dove si alterna con il bianco e nero e il seppia: è per mezzo di questa stessa pausa, questo «atto mancato», che Tarkovskij veicola uno dei suoi tanti messaggi, più o meno impliciti.
Esperienze come Alle Ortiche Festival possono dimostrare quanto proiettare film in pellicola non sia una tecnica morta e museificata, ma potenzialmente viva e appassionante, tenuta ben viva anche l’esperienza aggregante del cinema, oggi spesso e tristemente accantonata a favore di una fruizione solipsistica e talvolta alienante.
Un’esperienza totalizzante
Non solo: con l’evento cinematografico, vengono fatti vivere intensamente anche i luoghi della proiezione, in questo caso le pittoresche Serre di San Nicola. E, nel caso precipuo della visione all’aperto, diviene protagonista anche l’ambiente – nella sua totalità: artificiale, naturale, meteorologica – in cui è immersa la proiezione: quindi l’opera, gli spettatori, il proiezionista – figura presente e al tempo stesso misteriosa, nascosta.
Così, la natura perturbante del film di Tarkovskij si fonde con l’atmosfera inquieta della tempesta che realmente, nel mondo al di qua dello schermo, si avvicina: la visione si totalizza in una sinfonia che dileguerà solo nel momento in cui lo schermo tornerà a essere nero (o meglio: bianco). Sinfonia – tanto epidermica quanto emotiva – che forse, nell’intimo dello spettatore, non dileguerà mai del tutto.
Un grazie speciale a Leonardo Nicolini, il cui prezioso aiuto di confronto e consiglio ha permesso la genesi di questo articolo.
Leggi anche l’intervista
Laboratorio Probabile Bellamy – Il cinema in pellicola a Genova
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