
Black Narcissus – Modernità prima del tempo
A pensare agli anniversari viene, a volte, un senso di vertigine, soprattutto se questi ultimi riguardano i film. Considerando il numero di titoli che esce ogni anno ci si trova a volte a pensare a quali sopravvivranno nella memoria delle generazioni successive, imponendosi come oggetti di culto o rivelandosi capaci di meritare la problematica etichetta di “capolavoro”. È certo che alcuni di questi mantengono però intatto il proprio fascino anche a distanza di decenni, e questo è senza dubbio il caso di Black Narcissus, uscito 75 anni fa dalle mani di Michael Powell e Emeric Pressburger. A pensare che il film venne proiettato per la prima volta nel 1947 non si può che rimanere stupiti per la sua flagrante modernità, per la bellezza dello stile e per la grande fascinazione che ancora oggi ci sanno regalare alcune delle sue più memorabili sequenze. La vicenda (adattamento dell’omonimo romanzo di Rumer Godden del 1939) è di per sé estremamente affascinante, ma è soprattutto nel rapporto complesso fra personaggi e ambiente che Black Narcissus raggiunge il suo apice.

Questo è di per sé un tratto di travolgente modernità, che anticipa (senza pur arrivare a farsi riferimento) una tendenza che sarà dominante nel cinema moderno. In Black Narcissus lo spazio è già una dimensione cruciale della narrazione filmica, che travolge i personaggi e finisce per determinarne i destini. Lo si capisce già nelle battute iniziali del film, in quella vertiginosa inquadratura verso il basso in cui una delle suore suona la campana del monastero, sospesa su uno strapiombo nel vuoto. Immagine sublime nel senso estetologico del termine, questa breve sequenza lascia già intravedere il destino delle protagoniste del film, destinate a restare sospese sul ciglio del precipizio ed esposte al costante rischio del suo attraversamento.

L’ambiente, si diceva. Il palazzo principesco dove le Sorelle apriranno il loro convento, chiamato dai locali “La casa delle donne” è già segno della sua funzione narrativa. Dall’architettura contorta e dagli spazi a metà fra lo spettrale e il morboso, questo ambiente è al contempo memoria di un passato che si rifiuta di finire (lo si vede negli arazzi che suor Clodagh, la giovane madre superiora, chiede di far rimuovere) e un futuro che pare già condannato alla tragedia (e che ancora una volta è anticipato dalla dinamica di sguardi fra Clodagh e il sig. Dean). Emanuela Martini, una delle interpreti più autorevoli del cinema di Powell e Pressburger ha parlato degli ambienti del film come intrappolati in un’aria “da serra” ed in effetti l’espressione sembra tradurre bene il senso di oppressione che la dimensione spaziale esercita sui destini delle protagoniste. È un peso ingombrante, che non si può ridurre alla temperatura o all’umidità, ma che certamente infesta i luoghi e si fa ben presto alteratore della personalità. Con un paragone un po’ ardito ma che lascia intravedere la preveggenza degli autori, si potrebbe anche affermare di non essere così lontani dal Solaris di Tarkovskij.

C’è forse ancora un punto che merita di essere sollevato, perché oltre a contribuire alla drammaturgia delle passioni delineata sinora, è una vera e propria marca stilistica del duo di registi. Il colore, come in altri film di Powell e Pressburger, è infatti più che mai cruciale. Non c’è neppure bisogno di pensare al successivo Scarpette rosse (1948), perché già in Black Narcissus le tinte degli abiti si stagliano sul tono complessivo degli ambienti, definendo poli di attrazione e repulsione e marcando l’evoluzione emotiva dei personaggi. Il contrasto fra il bianco ascetico della veste di Clodagh e gli abiti dei locali è solo il più evidente degli esempi in questo senso, ma è forse nei toni atmosferici di quel cielo irreale che si staglia sopra il convento che il lavoro sul colore si fa ancor più straordinario. Dalle nuvole che aprono il film ai colori quasi lisergici del finale, tutto si svolge sotto un cielo che traduce la discesa psicologica delle protagoniste, in un modo che è ancora una volta già pienamente moderno. Forse il fascino di un film come questo e le ragioni della sua sopravvivenza stanno proprio nel suo essere orgogliosamente e radicalmente già fuori dal suo tempo, proiettato in avanti prima ancora che di questo “avanti” si avesse piena cognizione.

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